C’è una sorprendente corrispondenza tra riti, profezie e immagini prefigurative che nell’Antico Testamento riguardano l’agnello e la Passione di Colui che, ad ogni Santa Messa, il popolo cristiano saluta come “l’Agnello di Dio”. Questa figura biblica esprime meglio d’ogni altra il volto del Redentore. Lo vogliamo contemplare e adorare sollevando i veli della simbologia.
Nell’attuale mondo scristianizzato le tradizioni ereditate dal mondo cristiano spesso rimangono come massi erratici su un sentiero di montagna: il viandante si ferma, si incuriosisce ma non sapendosi spiegare l’origine e il motivo della loro presenza, li evita e prosegue indifferente il suo cammino. Questo vale soprattutto per le tradizioni pasquali e natalizie, che portano impressa l’eredità culturale del Cristianesimo, anche se raramente vengono vissute nel loro significato religioso, nello spirito della croce di Cristo.
È questo il caso dell’agnello che viene imbandito sulle tavole di tutte le famiglie in occasione della Pasqua, e nella cui figura viene imitato anche da molti dolciumi di diversa fattura, dal marzapane al cioccolato. Eppure l’agnello non è un simbolo tra gli altri, non è un’immagine più o meno allusiva del mistero cristiano, in quanto è il simbolo per eccellenza di Cristo stesso. Tale affermazione non è affatto temeraria in quanto scaturita dalla bocca dell’ultimo e più grande dei profeti, san Giovanni Battista, all’approssimarsi di Cristo al Giordano: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29).
La tradizione iconografica dell’agnello in ambiente cristiano risale ai primi secoli e la retrostante simbologia attinge a un patrimonio scritturistico, liturgico e teologico di impressionante ricchezza e profondità. L’immagine dell’agnello è infatti in grado di racchiudere in sé diversi concetti e tradizioni veterotestamentarie e di riunirle nella figura di Gesù Cristo, l’agnello immolato per la nostra salvezza. Proviamo ad analizzare come tutte le allusioni veterotestamentarie all’agnello si compiano in Cristo, l’agnello immolato per la nostra salvezza.
1) AGNELLO PURO E SENZA MACCHIA
Ben sappiamo come la Pasqua ebraica (la Pesach) commemori il passaggio del Mar Rosso da parte del popolo eletto, in fuga dalla schiavitù d’Egitto e diretto verso la Terra Santa. In quell’occasione, come è ben noto, il Signore prescrisse a Mosè di compiere una cena frugale «con i fianchi cinti, i sandali ai piedi e il bastone in mano» (Es 12,11), costituita da un agnello, erbe amare e pane azzimo. Allo stesso tempo comandò anche che questo divenisse un rito tradizionale da tramandare di generazione in generazione e da compiersi il 14 del mese lunare di Nisan. Nel prescrivere a Mosè come compiere la cena pasquale Jahvè diede chiare indicazioni rituali sull’agnello che poteva essere scelto tra le pecore o tra le capre, ma che assolutamente doveva essere «senza difetto, maschio, nato nell’anno» (Es 12,5).
Un primo aiuto per cogliere il significato spirituale di queste regole ce lo danno Origene e san Girolamo, secondo i quali il fatto che il cibo principale della cena poteva essere scelto sia tra le pecore che tra le capre è il segno che Cristo sia morto sia per i giusti che per i peccatori.
L’attenzione posta alle caratteristiche dell’agnello già dimostra comunque come non si trattasse di una semplice questione alimentare: se l’agnello fosse stato considerato semplicemente un cibo non ci sarebbe stata ragione di dare indicazioni come queste, che sono spiegabili solo ammettendo che questo doveva essere sacrificato a Dio. In particolare, è la prima caratteristica a essere oltremodo significativa: come tutti i sacrifici offerti a Dio, anche l’agnello pasquale doveva essere scelto tra quelli che non presentavano difetti, perché «altrimenti sarebbe abominio presso Dio» (Dt 17,1). Chiaro che l’assenza dei difetti presso gli ebrei era valutata nell’assenza di deformità o di ferite nel corpo dell’animale, ma altrettanto chiaro che simbolicamente essa voleva indicare la purezza d’intenzione dell’anima di colui che compiva l’offerta. Chi voleva sacrificare qualcosa a Dio non poteva offrirgli qualcosa di deforme, di inutile, ma doveva privarsi di qualcosa di utile e prezioso, per dimostrare la purezza della sua intenzione.
Il Nuovo Testamento riprende la questione dell’agnello senza difetto, per indicare come questa simbologia si sia compiuta in Cristo «agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19). Ora Cristo al contempo verifica nella sua persona sia il simbolo che il significato di questo. Da una parte Cristo è l’agnello senza macchia, in quanto del tutto privo della vera sozzura spirituale, il peccato e le conseguenze di questo: la sua anima e il suo corpo sono immacolati, in quanto non contaminati dal peccato che è la vera deformità e bruttura agli occhi di Dio. Anzi va detto che non poteva esservi una vittima più degna di Cristo, in quanto Egli eguaglia in purezza e santità Dio Padre stesso, a cui viene offerto. In tal modo il sacrificio di Cristo è l’unico vero sacrificio degno della santità di Dio. Dall’altra parte Cristo è anche Colui che sacrifica al Padre se stesso con totale purezza di intenzione, per questo il suo sacrificio è il più gradito agli occhi di Dio, anzi è il Sacrificio perfetto che sostituisce ogni altro sacrificio precedente e che si rinnova nel sacrificio di ogni futura Santa Messa.
Meno attenzione si è data al fatto che l’agnello – secondo la prescrizione mosaica – debba essere nato nell’anno. Il significato di quest’ultima legge necessita alcune spiegazioni: l’agnello doveva avere dunque alcuni mesi, ma – secondo le indicazioni generali sui sacrifici (cf. Lv 22,27) – non doveva avere meno di otto giorni, in quanto doveva essere allattato dalla madre per almeno sette giorni. Non c’è qui un riferimento simbolico, sublimemente tenero, ai tanti anni passati da Gesù con Maria sua madre, al termine dei quali Gesù si consegnò ai suoi macellatori? E non dimentichiamoci che per garantire ancor più la purezza del Verbo Incarnato, la sapienza dell’Altissimo volle che si incarnasse in un’altra creatura del tutto priva di macchia, concepita senza alcun peccato, santificata dalla grazia nell’anima e rimasta vergine nel corpo, per cui a ragione si può dire che l’agnello «puro e senza macchia» fu «partorito da Maria, l’agnella pura», come recita l’antichissima Omelia pasquale di Melitone da Sardi. Anzi una particolare circostanza geografica approfondisce questo dato: come è noto la casa natale di Maria Santissima a Gerusalemme – dove sorge l’attuale chiesa di sant’Anna – era a poca distanza dal Tempio, e vicino ad esso vi era la piscina probatica di evangelica memoria. Secondo la tradizione – tramandataci dal Protovangelo di san Giacomo – san Gioacchino non era solo un sacerdote addetto al Tempio, ma aveva anche il compito di lavare nella piscina adiacente gli agnelli destinati al sacrificio, perché fossero una vittima degna e gradita a Dio. Come nella piscina di Betesda gli agnelli venivano purificati per il sacrificio nel Tempio, così nel grembo di Maria la natura umana di Gesù Cristo viene concepita pura e immacolata per essere sacrificio di soave odore a Dio altissimo.
2) AGNELLO MITE
Ci potremmo domandare perché tra tutti gli animali possibili la sapienza dell’Altissimo abbia scelto proprio l’agnello come prefigurazione privilegiata di Cristo. Evidentemente i testi dell’Antico Testamento non rivelano in pienezza questo mistero e lasciano questa immagine ancora tutta coperta dai veli della simbologia. Una prima risposta l’abbiamo già trovata nella purezza dell’agnello: con la sua lana candida e non ancora ingiallitasi dal passare del tempo, l’agnellino è proprio il simbolo della purezza e dell’immacolatezza, dell’esenzione da ogni sozzura di peccato. Una purezza anche interiore, che si manifesta nella semplicità: la lana dell’agnello è soffice e morbida, non ancora aggrovigliata in indistricabili nodi, in cui si incepperebbe ogni pettine. Tuttavia una seconda ragione va trovata nella mitezza dell’agnello. Tante volte rispetto al Messia viene usata la figura del Leone di Giuda (Ap 5,5), che trionferà sui suoi avversari e rivendicherà la sovranità sul suo regno. Nelle visioni ricevute da san Giovanni a Patmos e confluite poi nell’Apocalisse, tuttavia, è proprio l’Agnello colui che regna sulla Città di Dio ed è in grado di sciogliere i sigilli del libro. Davanti all’agnello tutto il creato si prostra e gli angeli intonano il Trisagio (Sanctus, sanctus, sanctus). Questo è il segno che il dominio e il regno del Verbo Incarnato è più fondato sulla mitezza che sulla forza, o meglio la sua forza è proprio la mitezza, anche perché nel suo regno di amore i popoli «forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci» (Is 2,4).
Il trionfo di Cristo è infatti avvenuto sulla croce quando la fonte della vita, accettando la morte, la sconfisse, e, pur parendo sconfitto, ingannò mirabilmente il demonio. Il mezzo del suo trionfo fu proprio la sua arrendevole mitezza, la sua accettazione pacifica di ogni violenza e umiliazione, per espiare i peccati umani. Tale mitezza emerge particolarmente nel suo arresto, nel giudizio iniquo pronunciato su di Lui e nella Passione da Lui subita, in cui si staglia mirabilmente la superiorità morale del Cristo sui suoi persecutori. E la dolorosa Passione di Cristo era già stata anticipata dalla profezia del profeta Isaia, che nelle pagine sul servo sofferente di Jahvè la dipinge già con mirabili tratti poetici, e da quella del profeta Geremia, che applicando a sé il simbolo dell’agnello mansueto condotto al macello (cf. Ger 11,19), al contempo lo applica al Redentore. Evidentemente noi riconosciamo bene nelle pagine di Isaia un accenno alla sorte di Cristo, ma non era così facile per gli ebrei scorgere in quelle pagine così angustianti una profezia sul Messia, da loro aspettato come trionfatore glorioso e restauratore dei diritti del popolo eletto. Ma è appunto il riferimento all’agnello quello che avrebbe dovuto convincerli che proprio del Messia si stava parlando, infatti il profeta Isaia non può che paragonare la sorte del “servo sofferente” a quella di un agnello condotto al macello: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (Is 53,7).
L’agnello è il simbolo dell’animale pacifico e disarmato: non ha forza per attaccare, né corna per difendersi; non è veloce per scappare dall’aggressore e non ha nemmeno una voce forte per chiamare in soccorso i suoi simili. L’esperienza degli allevatori conferma che un agnello quando viene preso per essere tosato non si lamenta e non si ribella, e persino quando va incontro alla morte non tenta di divincolarsi: l’agnello si lascia uccidere e continua a guardare pacifico il suo uccisore. L’agnello è come Cristo che dalla croce non emise una parola di lamento, né di condanna, ma, guardando i suoi uccisori, non seppe che esclamare: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,33).
3) AGNELLO SOFFERENTE
Nel capitolo 16 del Levitico a Mosè il Signore spiega come debba avvenire l’annuale cerimonia della purificazione, il famoso Yom Kippur. Di per sé essa non c’entra con la Pasqua ebraica, avvenendo in un periodo di tempo diverso (settembre-ottobre) e con un significato ben differente: si tratta infatti di un periodo di penitenza e di espiazione, concluso con la grande cerimonia rituale di purificazione da parte del sommo sacerdote. C’entra però con il nostro discorso, perché nella cerimonia di espiazione pubblica la legislazione prevedeva l’uso di due capri o agnelli: quello per l’olocausto e il famoso “capro espiatorio”. L’espressione, divenuta idiomatica nella nostra lingua, aiuta un po’ a comprendere il senso simbolico della cerimonia. Presi i due agnelli, si doveva tirare a sorte quale dei due sarebbe stato sacrificato, e quale invece sarebbe stato inviato nel deserto: proprio quest’ultimo era il capro espiatorio. Non è tutto ben chiaro riguardo a questa cerimonia enigmatica (per esempio chi sia il demonio Azazel, a cui si invia il capro), ma il significato generale è abbastanza chiaro: mentre l’agnello dell’olocausto veniva offerto in sacrificio a Dio e il suo sangue veniva sparso sul popolo, il capro o agnello espiatorio – con un’imposizione delle mani del sacerdote – veniva caricato dei peccati del popolo di Israele e spedito lontano dalla città santa, nel deserto, come ad allontanare il peccato dal popolo. Questo sdoppiamento è stato variamente interpretato: alcuni vi hanno visto un preannuncio delle due nature di Cristo, altri vi hanno letto le due figure di Cristo e di Barabba, e altri ancora infine ci hanno letto la spiegazione di come l’espiazione riguardi diversamente Cristo e il suo Corpo mistico.
Queste spiegazioni non sembrano però del tutto coerenti e convincenti, anche perché – secondo il rituale più puntuale trasmessoci dalla Mishnà – il capro espiatorio e quello destinato all’olocausto dovevano essere simili, il più possibile identici tra di loro. Inoltre al capro espiatorio durante la sua uscita da Gerusalemme veniva riservato un trattamento speciale: in quanto somma dei peccati del popolo di Israele, gli uomini si assiepavano attorno, lo insultavano, gli sputavano addosso e lo prendevano a calci fino a che non avesse preso la via del deserto. Come non vedere in tutto ciò un preannuncio realistico del trattamento che sarebbe stato riservato anche a Nostro Signore dai giudei di Gerusalemme? Non fu anche lui schiaffeggiato, sbeffeggiato e coperto di sputi e calci dal popolo inferocito? Chiaro dunque che non solo l’agnello sacrificale, ma anche quello espiatorio, è figura di Cristo e tale sdoppiamento allude piuttosto alle due dimensioni del sacrificio della Croce: da una parte sacrificio espiatorio, per colmare la misura divina e coprire i peccati dell’umanità, dall’altra di sacrificio eucaristico e di lode, che rende gloria a Dio e santifica gli uomini, purificandoli dal peccato.
4) IL SANGUE DELL'AGNELLO
Sia nella cerimonia purificatoria dello Yom Kippur che nell’uccisione dell’agnello per la cena della Pesach, un particolare rilievo aveva il sangue dell’agnello. Il capitolo 16 del Levitico si attarda lungamente nel descrivere come dovesse avvenire l’aspersione del sangue: mentre il sangue del giovenco veniva asperso per purificare i peccati commessi dallo stesso sommo sacerdote, con il sangue dell’agnello si aspergevano tutti gli ambienti del Tempio di Gerusalemme non tanto per purificare l’edificio stesso quanto per significare l’espiazione «per l’impurità degli israeliti, per le loro trasgressioni e per tutti i loro peccati» (Lv 16,16). In altre parole il sangue dell’agnello purificava simbolicamente il popolo di Israele, nel santuario in cui essi si rivolgevano a Dio, in modo tale che Dio togliesse da loro i peccati e il sacrificio offerto a Jahvè tornasse a Lui gradito. Il significato simbolico di questo rito è chiaramente sostenuto dall’importanza del sangue, in quanto fonte della vita: come gli israeliti aborrivano dal cibarsi del sangue degli animali – in obbedienza alla legge data a Noè (Gen 9,1-5) – così nel sangue di un animale puro vedevano un vero e proprio strumento di espiazione, un lavacro interiore. Nell’Esodo invece, come è noto, il sangue dell’agnello ucciso prima della cena in preparazione alla fuga dall’Egitto doveva servire per segnare gli stipiti delle porte delle case degli israeliti, perché l’angelo sterminatore – ultima delle piaghe inflitte agli egiziani – passasse oltre e non desse la morte ai primogeniti ebrei.
Ora in entrambi i riti emerge il potere salvifico del sangue dell’agnello sacrificato, il quale non è altro che una prefigurazione evidente del Preziosissimo Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo. La lettera agli Ebrei ci ricorda che Cristo «non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue» ci ha procurato «una redenzione eterna, infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalla opere morte, per servire il Dio vivente?» (Eb 9,12-15). Il sangue versato da Cristo sulla croce, il sangue fuoriuscito dal suo Cuore trafitto è il lavacro in cui veniamo ripuliti dal peccato e in cui veniamo santificati, infatti nell’Apocalisse, riguardo ai martiri si dice esplicitamente: «Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello» (Ap 7,14). Non solo però… come sulle porte degli israeliti il sangue dell’agnello era segno di esenzione dal castigo, così anche il Sangue di Cristo segna la nostra anima con un marchio di predestinazione e di salvezza, che ci esenta dalla sorte di morte dell’umanità peccatrice e ci dà il lasciapassare per la terra promessa e santa del Paradiso.
5) AGNELLO IMMOLATO
L’agnello condotto al macello – di cui profetarono già Isaia e Geremia – è in effetti il Cristo condotto a morte per i nostri peccati: la passione, crocifissione e morte di Gesù è un vero e proprio “macello” in cui la vittima viene straziata e poi uccisa. Anzi, a voler essere più precisi, la tipologia del sacrificio di Cristo è l’olocausto: la forma più alta e perfetta di sacrificio nel culto ebraico era infatti l’olocausto in cui, come dice la parola greca, l’intera vittima veniva bruciata. Normalmente, infatti, parte del sacrificio veniva salvato per essere mangiato dagli offerenti oppure per essere dato ai sacerdoti in servizio al Tempio come ricompensa per l’opera svolta. Nel caso dell’olocausto, invece, ciò non avveniva ma l’intero animale, con le sue viscere e le parti grasse, veniva bruciato sulla pira, per segnalare la totalità dell’offerta. Il sacrificio dell’agnello nel grande giorno della purificazione – lo Yom Kippur – era in effetti di questo tipo: dopo essere stato prelevato il sangue, con cui compiere le aspersioni di purificazione, il sommo sacerdote doveva togliere le vesti di lino bianco e compiere sull’altare dei sacrifici l’olocausto dell’agnello.
Questa tipologia di sacrifici era comunque già presente in uno dei più antichi sacrifici narrati dalla Bibbia, ovvero quello compiuto da Abramo sul monte Moria, altra prefigurazione del sacrificio di Cristo in croce, in cui di nuovo emerge la figura dell’agnello. Qui in realtà si parla di un ariete, ma i Padri della Chiesa non hanno temuto di vedere anche in questo una figura di Cristo. È ben nota la vicenda del sacrificio di Isacco che, per obbedienza a Jahvè, Abramo era pronto a compiere, sennonché, avvisato dall’angelo, trattenne la sua mano e, al posto del figlio, offrì al Signore un ariete lì presente. Nel rapporto padre-figlio, con il padre Abramo pronto a sacrificare il figlio Isacco per obbedienza, si può chiaramente leggere la vicenda della crocifissione di Cristo, ma è opportuno far notare come la tradizione cattolica abbia voluto scovare in questo sdoppiamento del sacrificio proprio una chiara indicazione del Verbo incarnato morto per i nostri peccati. Sulle tracce dell’interpretazione data da Origene e Melitone da Sardi, si può dire infatti che Isacco è la natura-persona divina di Cristo che, per obbedienza alla volontà del Padre, è pronto a morire per i nostri peccati, ma, per l’impossibilità di questo sacrificio, ecco che allora il sacrificio è seguito nella sua natura umana, quella dell’ariete-capro. La volontà di immolarsi in tal modo rimane nella persona divina, Isacco, ma viene eseguita solo nella sua natura umana. Non a caso i Padri della Chiesa hanno visto nella sorte dell’ariete anche alcuni dettagli della morte redentrice di Nostro Signore. A seconda della traduzione greca usata, infatti, l’ariete si incastrò con le sue corna in un cespuglio di rovi (Tertulliano, sant’Agostino) – indicando in tal modo la sua coronazione di spine – oppure direttamente in un tronco di legno, che indicherebbe il legno della croce (sant’Ambrogio), e su cui le corna dell’animale sarebbero come le braccia di Cristo crocifisse (Esichio da Gerusalemme).
In ogni caso la tipologia è evidente: l’olocausto tentato di Isacco, e quello veramente effettuato del capro-ariete, è il prototipo di ogni altro olocausto del culto ebraico e tutti questi sacrifici troveranno il suo compimento in quello di Cristo. Nel Sacrificio della croce si compie veramente quello che nel sacrificio di Abramo era stato impossibile. Sul Golgota il Figlio di Dio, in obbedienza a Dio Padre, decide di sacrificarsi in un olocausto completo della sua natura umana per la salvezza dei peccatori e nella sua morte in croce si compie definitivamente l’Alleanza siglata da Jahvè con Abramo: «Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché hai obbedito alla mia voce» (Gen 22,18). Non a caso dunque gli ebrei hanno sempre pensato che il monte Moria, dove Abramo era pronto a sacrificare il figlio Isacco, fosse proprio uno dei colli su cui sarebbe sorta la futura città di Gerusalemme, dove per molti secoli furono offerti olocausti di agnelli nel Tempio e dove Cristo avrebbe sostituito la molteplicità dei sacrifici con il suo Sacrificio.
6) AGNELLO EUCARISTICO
Il sacrificio dell’agnello nello Yom Kippur, quanto a tipologia, è ben differente da quello della Pasqua ebraica, perché in quest’ultimo caso non si trattava di un olocausto ma piuttosto di un sacrificio di comunione, nel quale la vittima non veniva integralmente bruciata ma veniva distribuita tra i sacerdoti e la famiglia offerente per essere consumata. In tal caso in effetti si voleva esprimere la pace e la comunione con Dio. Come è ben noto, l’agnello della Pasqua ebraica veniva ucciso nel Tempio dai sacerdoti, il suo sangue veniva usato per segnare lo stipite delle porte, e infine veniva consumato nella cena successiva che ogni famiglia effettuava nella propria casa.
Dunque la cena pasquale ebraica, pur non essendo un rito sacro, non era nemmeno una semplice tradizione familiare ma una cena rituale in cui, consumando le stesse vivande del pasto di quel lontano giorno dell’Esodo, gli ebrei “commemoravano” la loro liberazione dalla schiavitù egiziana. Anzi, parlare di commemorazione non è preciso: il rito era evidentemente basato sullo schema del midrash ebraico. Con questo termine si intende dire che quegli eventi non erano semplicemente narrati come un evento del passato da rinfrescare nella memoria, ma in qualche modo venivano riattualizzati, rivissuti nel presente, in modo da far rivivere anche la promessa di Jahvè con i suoi effetti salvifici. In un certo senso Cristo stesso nell’Ultima Cena fece un midrash del passaggio alla Terra Promessa, spiegando però come questa venisse definitivamente “riattualizzata” e compiuta nella liberazione dal peccato e dalla schiavitù di Satana. In realtà Cristo non si attenne strettamente al cerimoniale previsto ma, dimostrando la sua autorità divina, trasformò questa cena rituale in un vero e proprio sacramento, il sacramento dell’Eucaristia, e allo stesso tempo collegò la liberazione non a un evento del passato ma ad un evento non ancora compiuto, la sua morte in Croce. In questa trasformazione del rito, l’agnello perde importanza rispetto al pane azzimo – che diventa il Corpo di Cristo – e al vino offerto – che diventa il Sangue di Cristo – ma rimane comunque un importante elemento simbolico. Anzi – come ha acutamente notato Benedetto XVI – l’agnello scompare dall’Ultima Cena in quanto, in presenza della realtà significata stessa (Gesù), non c’è più bisogno del simbolo.
Ci soccorre nella comprensione di questo passaggio lo stesso Vangelo di san Giovanni: come è ben noto la narrazione della Passione in san Giovanni apparentemente sembra contrastare con quella degli altri evangelisti. Non è il caso qui di spiegare come accordare i sinottici con il testo giovanneo, ma ciò che è importante far notare è che san Giovanni “anticipa” l’Ultima Cena il giorno precedente la Pasqua ebraica – quando ancora gli agnelli non erano disponibili – e fa coincidere il Venerdì Santo, il giorno della Passione di Cristo, con il giorno in cui gli agnelli venivano sacrificati nel Tempio di Gerusalemme. Cristo, l’Agnello dell’olocausto della croce, viene così immolato nello stesso giorno degli agnelli pasquali. San Giustino ci tramanda come nella cena pasquale ebraica l’agnello, per essere arrostito, veniva trafitto con due spiedi di legno, che formavano quasi una croce, indicando così profeticamente lo stesso strumento del supplizio di Nostro Signore. Cristo non aveva bisogno di ripetere nell’Ultima Cena questo rituale, in quanto il giorno successivo Lui stesso sarebbe stato appeso a una croce e le sue membra sarebbero state trafitte, dando a vedere a tutti come Lui fosse il vero agnello pasquale immolato nell’olocausto ultimo e definitivo del culto al Dio vero.
Dunque il supplizio della croce fu solo un olocausto? In tal senso, in qualche modo, negherebbe ogni collegamento con la cena pasquale ebraica in cui veniva mangiata anche la vittima del sacrificio di comunione. In realtà nella Sua divina sapienza l’Altissimo sistemò le cose con così tanta perfezione, che il Sacrificio della croce, il sacrificio del vero Agnello, assomma in sé due cose di per sé contraddittorie, ovvero l’olocausto e la comunione. Nella Santa Messa – ripresentazione sacramentale del Sacrificio della Croce –
al contempo si vive l’olocausto dell’agnello propiziatorio e la comunione con l’agnello pasquale, in quanto Cristo veramente sacrifica se stesso, senza risparmiare nulla di sé e della sua natura umana, ma al contempo si dona a noi nella santa Comunione. Si sacrifica nella natura umana passibile e si dona a noi nella sua natura umana glorificata.
Per questo Cristo è un vero agnello eucaristico ed è per questo che, dopo la Consacrazione e prima della Comunione, nel rito romano della Santa Messa, lo accogliamo e lo lodiamo con il nome dell’agnello: «Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi».