La Corte costituzionale ha detto no al referendum pro eutanasia promosso dai Radicali. Ma la battaglia non è ancora vinta e si sposta in Parlamento, dove si discute il disegno di legge “Bazoli” di chiara matrice eutanasica. Osserviamone le principali criticità.
Il 15 febbraio la Corte costituzionale ha giudicato inammissibile il referendum proposto dai Radicali che avrebbe voluto l’abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale che vieta l’omicidio del consenziente.
Il comunicato stampa della Corte fa intendere che bisogna garantire «la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili». Belle parole. Non ci adagiamo però sugli allori.
Innanzitutto, i Radicali sono maestri di strategia: ai tempi dei referendum sull’aborto hanno presentato una proposta di legalizzazione massimale in modo da far apparire la legge 194 come una legge “moderata” (e sappiamo bene che non lo è). Così, un referendum per ottenere l’abolizione del reato di omicidio del consenziente (cioè la morte a richiesta) potrebbe servire a far passare come un’alternativa “accettabile”, un buon “compromesso” “a tutela della vita” il disegno di legge depositato in Parlamento.
Inoltre, se da un lato si può essere lieti della inammissibilità del referendum, dall’altro – purtroppo – non è affatto chiaro cosa si intenda per “tutela costituzionalmente necessaria della vita umana”.
Innanzitutto, da quasi mezzo secolo l’aborto – che pone fine alla vita umana più innocente e indifesa – è stato giustificato dalla stessa Consulta in considerazione del preminente “diritto” della madre.
Poi, nel 2019, con la sentenza 242, la stessa Corte, ha giudicato possibile legalizzare il suicidio assistito, a certe condizioni. Ciò vuol dire che la «tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana» è un concetto piuttosto fluido, che “dipende” da “certe situazioni”.
E dal 2017, la legge 219, nota come “legge sulle DAT”, permette l’interruzione di cibo, idratazione e ventilazione (o di eventuali terapie) finché non sopraggiunga la morte del paziente che abbia prestato idoneo “consenso informato”. Val la pena ricordare – per inciso – che se la persona è incapace di intendere e volere, conta il consenso prestato anche molto tempo prima e in tutt’altre condizioni. Oppure decide una persona delegata o un rappresentante legale: quindi la famosa “autodeterminazione” non è affatto garantita.
E infine c’è un altro pericolo in vista: il disegno di legge Bazoli-Provenza che vuol legalizzare il cd. suicidio assistito, dando attuazione proprio alle disposizioni della Corte Costituzionale contenute nella sopracitata sentenza del 2019.
La principale criticità contenuta in questo ddl è che considera la vita umana come un bene disponibile, in aperta contraddizione con il precetto “non uccidere” che – ricordiamo – non è “solo” uno dei Comandamenti che Dio ha dato all’uomo, ma è anche una regola sociale razionale e “laica” contenuta in quella legge naturale che accomuna tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutte le latitudini (e alla quale – ahinoi – gli uomini cercano e trovano sempre modo di fare eccezione “in determinati casi”...).
Un altro elemento critico del ddl in questione è l’indeterminatezza della fattispecie, in particolare per quanto riguarda la “condizione clinica irreversibile”. A rifletterci bene “una patologia irreversibile, a prognosi infausta che provochi sofferenze intollerabili” è qualsiasi vita umana: siamo tutti inesorabilmente destinati alla morte. E chi, nella vita, può dire di non aver mai sofferto “pene intollerabili”? Comunque, a voler restare strettamente nel campo medico, ci sono diverse patologie, come il diabete, come certe malattie del sangue, che sono certamente irreversibili e a prognosi infausta, ma che, adeguatamente trattate, consentono una vita lunga e relativamente felice. Quanto all’intollerabilità del dolore: chi ha il metro per stabilire che le pene sofferte da Tizio siano più o meno insopportabili di quelle di Caio? E poi, ammesso e non concesso che la morte assistita possa servire a porre fine alla sofferenza, chi può garantire che essa stessa sia davvero una “bella” morte, veloce e indolore? I dati in nostro possesso dicono tutt’altro. Gli stessi eutanasisti (in Canada e nel nord Europa) non fanno altro che studiare nuovi cocktail di sostanze più rapide, indolori ed efficaci: vuol dire che il problema esiste, eccome.
Il ddl Bazoli, inoltre, non spiega cosa si intende per “cure palliative” (che non possono essere ridotte alla semplice somministrazione di antidolorifici, ma consistono in una serie di interventi multidisciplinari con supporto psicologico sia per il paziente che per i familiari), né contiene un riferimento chiaro all’obiezione di coscienza, stravolgendo ancora una volta il ruolo e la professione del medico, che è quella di “curare”, anche quando non si può guarire. Chi dà la morte non si chiama medico, ma boia.
I fautori della normativa in questione, inoltre, si presentano come paladini della libertà e dell’autodeterminazione. Abbiamo già visto come sia solo una pia illusione, in base al disposto della legge vigente sulle DAT. E, in buona sostanza: chi è che garantisce che la volontà del morente sia tale fino alla fine? E se, invece, serve l’assenso di una commissione medica, allora la decisione è presa da altri e non dal malcapitato paziente!
I Paesi al mondo sono circa 195. Solo una decina di essi ha legalizzato leggi eutanasiche e in ognuno di essi, una volta aperta la falla nella diga, tutti i paletti e le garanzie sono saltati: si uccidono malati non terminali, disabili lievi, giovani sani semplicemente depressi, anoressici, minorenni, bambini, persone che si dichiarano “stanche di vivere”... Tanto per fare qualche numero: in Oregon, in 20 anni, i suicidi assistiti sono aumentati del 1.500%, a Washington in 10 anni, del 560%; in Olanda le eutanasie sono aumentate del 382% (ma per una buona parte non sono neanche segnalate); in Belgio in 18 anni sono aumentate del 1.025%, in Svizzera del 2.730% in 20 anni; in Canada, le persone uccise perché sofferenti sono state 1.018 nel 2016 e 21.589 nel 2020.
La legge ha un alto valore pedagogico: finché essa protegge la vita, i consociati assumono la vita stessa come un valore da difendere, da tutelare. Nel momento in cui la vita diviene un ingombro di cui lo Stato si incarica di liberarci, ogni persona malata, o che si sente abbandonata e sola, bisognosa di cura e di assistenza, si sentirà in dovere di morire, per non essere un ingombro – appunto – per i familiari e per la società.
In realtà gli psichiatri seri sanno bene che nessun aspirante suicida vuole “morire”, ma vuole solo smettere di soffrire. La società civile e lo Stato devono fornire le cure di prossimità e farmacologiche necessarie per lenire la sofferenza, non eliminare il sofferente... Ma curare costa. Uccidere è più economico, più facile e più sbrigativo.