Centinaia e centinaia di lavoratori si trovano sulla strada perché negli ultimi mesi grandi multinazionali hanno deciso di chiudere in Italia per aprire altrove. Eppure non si tratta di aziende in crisi o in fallimento. Ciò non deve stupire perché risponde alla “logica delle multinazionali” e ai meccanismi della globalizzazione che aprono facilmente a derive anti-etiche e anti-umane. Quale soluzione indica la Dottrina sociale della Chiesa?
In questi ultimi mesi molte società che fanno capo a gruppi esteri hanno deciso di abbandonare l’Italia e delocalizzare prevalentemente in Paesi in via di sviluppo per cercare nuovi mercati dove la manodopera costa meno, dove vi sono meno tutele sindacali, dove c’è la possibilità di ottenere finanziamenti e sussidi a condizioni più vantaggiose e di vedersi praticare agevolazioni fiscali molto appetibili.
Insomma, lasciano il nostro Paese solo per guadagnare di più.
Altri motivi non se ne ravvisano, ove si consideri che sono tutte aziende, quelle che dichiarano di essere in crisi qui da noi, che fanno utili, distribuiscono succosi dividendi ai soci, operano e dispongono di un mercato che tira, hanno produzioni di alta qualità molto richieste. Ecco, queste le contraddizioni che subito si possono rilevare anche nelle giustificazioni che le governance di questi gruppi stanno fornendo sia ai sindacati che al governo italiano, che sta predisponendo un decreto, per la verità quando i buoi sono già scappati dalle stalle, perché l’elenco delle imprese multinazionali che stanno delocalizzando continua ad aumentare di giorno in giorno.
Il provvedimento (“Decreto legge recante misure urgenti in materia di tutela dell’insediamento dell’attività produttiva e di salvaguardia del perimetro occupazionale”) dovrebbe scoraggiare la fuga delle multinazionali e mettere un argine al fenomeno delle “multinazionali in fuga” e alle chiusure aziendali non motivate da reali situazioni di crisi.
Questa vicenda ci dà l’occasione per vedere quali sono in realtà le logiche che muovono questi colossi della finanza e dell’industria, cercando di indagare quali sono le politiche e le strategie globali di queste multinazionali presenti in tutto il mondo, per tentare anche di far luce sui meccanismi della cosiddetta “globalizzazione”.
La “globalizzazione” è sostanzialmente questo: distinguere il proprio profitto dal ruolo sociale della produzione, disgiungere il proprio tornaconto da leggi, convenzioni ed accordi nazionali, separare la effettiva proprietà, in mano alla finanza internazionale, dalla produzione.
In pratica, si chiude qui da noi solo perché non è abbastanza conveniente sulla scacchiera internazionale restarci ed anche perché occorre “consolidare” la rendita azionaria altrove.
Presso la casa madre di questo tipo di aziende, cioè, si punta per vincere. E per vincere a tutti i costi si getta via il sacrificabile. Ossia l’Italia, che si presenta spesso debole all’interno della stessa multinazionale negli equilibri di potere.
Oggi le potenzialità per ripartire ci sono a patto che si cambi “pelle” e si ripensi ad un nuovo modello di sviluppo attraverso il rilancio delle infrastrutture e dei lavori pubblici, un ricorso più agevole al credito bancario, una burocrazia più snella, una migliore formazione del personale, una giustizia più veloce ed efficiente.
Il caso delle singole multinazionali che delocalizzano dall’Italia pone, dunque, in maniera drammatica il problema di questo tipo di economia globalizzata, nell’ambito della quale i capitali si spostano, secondo convenienza, dove produrre costa meno.
E davanti ad uno strapotere tanto forte da schiacciare popoli e nazioni, si mettono in tragica evidenza i ritardi culturali dell’Europa e dell’Italia, nonché i limiti delle vecchie ideologie.
Davanti alle legittime proteste dei lavoratori, che da un giorno all’altro si trovano senza lavoro, c’è ancora chi fa appello alla preistorica logica del “lasciar fare”, che appare nel XXI secolo del tutto inadeguata, dal momento che il nuovo capitalismo, (definito da Luttwak “turbo-capitalismo”) è in grado di abbattere addirittura strutture sociali e Stati nazionali.
Il neocapitalismo arriva in un’area in via di sviluppo, le conferisce una momentanea ricchezza, ne indebolisce ulteriormente le strutture statuali già deboli e ne sfrutta il capitale umano. Quando l’area in questione, grazie anche alla accresciuta capacità economica, eleva anche il proprio status culturale e le proprie aspettative sociali, finisce per “alzare il prezzo”, detta condizioni, difende diritti, allora la multinazionale riparte, lasciando solo recessione e crisi. Va in un’altra area, ancora più povera ed abbastanza da accogliere i rappresentanti dell’azienda come “salvatori”, concedendo loro privilegi, contributi, sgravi fiscali. Una politica, questa, che oltre che essere anti-etica, anti-morale, anti-umana, si muove anche contro il vero sviluppo. Le aree abbandonate e desertificate dalle multinazionali si moltiplicano nel mondo (USA compresi); le fasce di poveri in Occidente si accrescono e con esse i potenziali squilibri sociali.
Ristrettissimi centri di potere finanziario calpestano così l’interesse e la dignità dei popoli: ricchi e poveri, imprenditori e operai, intellettuali e disoccupati. I proprietari delle multinazionali ad esempio spesso sono fondi che raccolgono il risparmio in tutto il mondo, non sono produttori di merci e servizi, ma solo detentori del potere finanziario. Non sanno nemmeno come è fatto il loro prodotto. E nemmeno interessa loro saperlo.
L’area culturale ed ideologica socialdemocratica mondiale tentò di indicare la propria via per affrontare la globalizzazione, circa venti anni fa, e si domandò come poter conciliare la libertà dell’economia aperta mondiale con i diritti sociali. A quella domanda nessuno ha dato risposta, finora.
Le letture ideologiche liberali, socialdemocratiche o, per quel che resta, marxiste non sanno dare risposte credibili.
La Dottrina sociale della Chiesa, invece, offre soluzioni adeguate e sempre valide. E più volte il Magistero ha indicato la via da seguire nel campo economico-sociale.
Per sfidare l’economia globale sul suo terreno, va reso competitivo il nostro territorio, soprattutto riportando la nostra cultura cattolica e solidarista, nazionale e comunitaria al centro del dibattito culturale e politico europeo.