FEDE E CULTURA
Santi avventurieri francescani in Cina /5
dal Numero 30 del 15 agosto 2021
di Carlo Codega

In seguito alla grande opera missionaria del beato Odorico da Pordenone e di fra’ Giovanni da Montecorvino, il Cattolicesimo in Cina aveva piantato stabili radici e poteva crescere sano e rigoglioso se alcune dolorose congiunture sociali e politiche non fossero intervenute a dargli un netto colpo di scure.

L’ultima spedizione

Durante il viaggio di ritorno di Odorico da Pordenone, a Pechino il popolo cristiano piangeva la morte del suo grande benefattore e padre, Giovanni da Montecorvino. La chiesa locale e il gran khan stesso provvidero immediatamente a chiedere a Roma un successore sulla cattedra dell’arcivescovato di Pechino, in modo che l’incuria e la confusione non vanificassero il grande lavoro del Santo missionario campano. 

Il discusso Giovanni XXII, forse anche a causa dei difficili rapporti con l’Ordine dei Frati Minori, solo nel 1333 nominò un successore, nella persona di fra’ Nicola, che purtroppo però morì durante il viaggio. Nel 1336 il gran khan Toghun Temur, dopo alcuni anni di confusione nell’impero dovuta a carestie e ribellioni, inviò un mercante italiano, Andalò da Savignone (noto anche come Andalò franco) – ben conosciuto a Pechino anche dai precedenti imperatori – perché rinnovasse la richiesta al Papa di provvedere a un successore del da Montecorvino: Andalò ben svolse il suo incarico, giungendo ad Avignone nel 1337 anche con una lettera dei cristiani di Pechino. Il pontefice Benedetto XII prima nominò un certo Nicholas Bonet, ma poi lo sostituì con un francescano di nobile famiglia fiorentina, fra’ Giovanni de’ Marignolli, noto anche per la sua preparazione teologica e letteraria. Il Marignolli fu consacrato vescovo di Pechino e nel 1338 prese le vie di Oriente insieme al mercante ligure autore della missione diplomatica e ad altri trentadue frati minori: il viaggio in realtà, passando per Costantinopoli e per Almalyak – dove la presenza dei Frati Minori era stata appena rasa al suolo da un khan musulmano integralista –, si allungò e complicò, comportando anche l’attraversamento del famoso Deserto dei Gobi. In tal modo poté giungere a Pechino solo nel 1342 dove venne comunque ben accolto dal gran khan, che confermò con entusiasmo e anche con il supporto economico la presenza e la missione dei Frati Minori a Pechino e nella Cina. Nonostante le insistenze del gran khan Temur, nel 1346 il de Marignolli riprese la via dell’Europa, visitando prima il resto della missione francescana in Cina e passando poi per l’Indonesia, l’India, Bagdad e Gerusalemme. 

La missione del Marignolli in un certo senso fu l’apice dell’attività missionaria e diplomatica dei Francescani nelle terre cinesi e mongole, sia per il gran numero di frati che mise a disposizione della missione, sia perché al suo ritorno presso il Papa l’arcivescovo di Pechino portava con sé una missiva in cui non solo si riconosceva la libertà dei cattolici di predicare e convertire gli altri, ma soprattutto in cui il gran Khan riconosceva il Pontefice romano come il signore di tutti i cristiani del suo impero, non solo dei cattolici ma anche dei nestoriani e degli altri scismatici. 

Come purtroppo ogni cosa nella vita e nella storia umana, l’apice significa il culmine di una salita, ma anche l’inizio di una discesa... una discesa che in questo caso fu anche straordinariamente e terribilmente veloce.

 

Tra peste nera e nazionalismo cinese: la fine della missione francescana

Con la morte di Odorico e il ritorno in Euro­pa del Marignolli ci avviciniamo infatti a quel famigerato 1348 che fa da spartiacque nella storia della Cristianità europea, in quanto segna l’inizio della fine del Medioevo cristiano. La data non è casuale, ma ricorda l’arrivo in Europa – proprio dalle steppe dell’Asia che rappresentavano gran parte del dominio dei khan – della famosa peste nera, che avrebbe ridotto la popolazione europea di un terzo, causando più di 20 milioni di morti. Il che non fu senza ricadute sulle missioni francescane in Cina: un calo così sensibile della popolazione e una riduzione del benessere europeo causarono una crisi anche all’interno degli Ordini religiosi, specialmente quelli mendicanti, allora in crescita vertiginosa. Non solo le vocazioni crollarono a picco ma interi conventi furono abbandonati e, dato che le comunità religiose si rivelavano facilmente focolai di infezione, non pochi furono i morti tra i frati predicatori e quelli minori. Il che, in ottica missionaria, significò che gli Ordini non solo non poterono più impegnarsi nell’espansione in Oriente, ma neppure garantire il normale ricambio, quando non erano costretti a richiamare alla base i missionari già là da tempo. 

In questo contesto di difficoltà generalizzata, il colpo della scure arrivò però da un imprevisto rivolgimento politico in Cina: la Cina non aveva sofferto molto per la peste nera, quanto piuttosto per delle carestie che ormai da trent’anni a intermittenza flagellavano l’immenso impero mongolo. Su questo malessere soffiò presto il vento del nazionalismo cinese, che trovò nel figlio di un povero bracciante della Cina settentrionale, tale Zhu Yuanzhang, un abile capo militare. Già monaco buddista, costui abbandonò la vita monastica per quella delle armi e seppe coalizzare i vari movimenti di protesta e ribellione contro gli imperatori mongoli della dinastia Yuan, rappresentati da Hui Zong. Con la presa di Nanchino e di Pechino, Zhu Yuanzhang assunse il titolo di imperatore, cambiando il suo nome in Hongwu, e dando vita alla celebre dinastia dei Ming, destinata a governare la Cina per tre secoli. Ma, sfortunatamente per il Cristianesimo, i Ming non solo erano fautori di un ritorno alla religione tradizionale cinese, ma in particolar modo vedevano nel Cristianesimo – tanto sostenuto dai sovrani mongoli – un avversario da distruggere. Con l’avvento al potere di questa dinastia nazionalista e la contemporanea astenia del Cristianesimo europeo, dissanguato dalla carneficina operata dalla peste nera, calò il sipario sulla missione francescana e, più in generale, sulle missioni cristiane medievali in Cina. Non venne più nominato un arcivescovo di Pechino, così come si bloccarono l’invio di missionari e il ricambio della gerarchia ecclesiastica: ciò che rimaneva del Cristianesimo dovette tornare ad occultarsi per sopravvivere. 

L’immenso territorio segnato da grandi corsi d’acqua e da paesaggi stupendi, nonché da una civiltà che per antichità e saggezza non ha nulla da invidiare all’Europa, ancora tornava ad essere chiuso al Cristianesimo. Dovremo aspettare almeno tre secoli perché, in un nuovo contesto e con nuovi protagonisti, la croce di Cristo torni ad allungare la sua ombra sull’Impero Cinese.

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