Per i Francescani dell’epoca, la Cina era qualcosa di remotissimo ma anche qualcosa di familiare, grazie alle notizie che giungevano in Italia dalla missione di Pechino fondata da fra’ Giovanni da Montecorvino, le quali accesero nel cuore del giovanissimo Odorico l’“incendio missionario”. Anche lui avrà l’inestimabile grazia di partire per l’Oriente come ambasciatore del Vangelo...
Verso la Cina
In questa storia in cui le tinte si sovrappongono l’una all’altra a creare un affresco a volte luminoso e altre volte oscuro, l’ultima figura da analizzare tiene insieme tanti aspetti a prima vista inconciliabili: tempra da asceta ma cuore da apostolo, eremita che amava la contemplazione solitaria e visitatore delle terre e delle popolazioni più inaccessibili. Frate esemplare nella vita claustrale, che sapeva agire anche come abile diplomatico pontificio. Tutti questi aspetti si incontrano, senza scontrarsi, nella vita del beato Odorico da Pordenone (1286-1331), che non a torto ha meritato il titolo di “Apostolo dei cinesi”, nonostante non abbia avuto la fortuna di condurre molti anni in missione e di poter morire tra i suoi amati convertiti.
Per quanto ne sappiamo e per quanto sia possibile ricostruire delle sue vicende, il beato Odorico condusse solo una quindicina di anni al di fuori d’Italia e non tutti i tratti del suo viaggio sono chiari. Ciò che è certo è che da sempre il Beato – nativo di Pordenone – aveva coltivato in cuore sogni di apostolato missionario, anche se per molti anni, cioè dalla sua nascita fino al 1314, dovette tenerli serbati nel cuore, mettendo a disposizione della sua congregazione e della Chiesa il suo spirito di servizio e di obbedienza filiale. Le lettere del beato Giovanni da Montecorvino provenienti dalla Cina, con cui illustrava i progressi dell’annuncio missionario, ma anche la drammatica necessità di lavoratori nella sterminata vigna cinese, risvegliò però nel suo cuore un indomito desiderio, difficile da contenere. In realtà ancora per una decina di anni avrebbe dovuto frenare il suo impeto, ma alla fine, verso il 1314 (anche se i primi anni furono spesi nel vicino Oriente e nelle parti orientali dell’Europa), riuscì a ottenere dai superiori (o forse dal Sommo Pontefice stesso) il permesso di partire per la Cina.
Qui si aprono molti problemi per lo storico che ne voglia ricostruire la biografia: da una parte infatti la sua dettagliata descrizione, dettata a fra’ Guglielmo da Solagna e nota con il nome di Relatio o Itinerarium, illustra alla perfezione il suo viaggio di andata, con la descrizione di tutti i luoghi toccati dal suo itinerario e di tanti dettagli curiosi. Dall’altra parte almeno due aspetti risultano particolarmente difficili da coordinare con il viaggio di un missionario destinato alla Cina: innanzitutto il viaggio effettuato e le lande percorse dall’indomito Frate friulano non tracciano affatto l’itinerario più breve per la Cina. Anche ipotizzando qualche ostacolo nel percorso ordinario, difficilmente qualcuno animato dal desiderio di raggiungere il prima possibile la Cina da Trebisonda avrebbe deviato per Bagdad, Ceylon, per giungere poi addirittura a Sumatra e nelle Filippine. Tuttavia va fatto notare che, passando per l’India, recuperò le ossa di alcuni sfortunati missionari francescani, uccisi l’anno precedente dai pagani mentre tentavano di raggiungere la Cina. Il soggiorno in mezzo agli idolatri non fu semplice nemmeno per fra’ Odorico, dato che questi tentarono di appiccare il fuoco alla sua casa e poi lo sottoposero a torture. Egli comunque ne uscì vivo e riuscì a portare le sacre reliquie alla cattedrale di Quanzhou. Il nostro buon Frate ebbe anche l’occasione di visitare la tomba dell’apostolo Tommaso, primo evangelizzatore dell’India, lamentandosi dell’abbandono in cui l’avevano lasciata i cristiani nestoriani.
Il soggiorno in Cina
Il nostro Odorico, giunto in Cina, si mise innanzitutto al servizio del vescovo Andrea di Perugia: amante della vita ritirata e delle pratiche penitenziali, il Frate friulano abitava normalmente in un eremo discosto dalla città per compiere, di tanto in tanto, escursioni missionarie nelle città così come nei villaggi. Lo zelo apostolico animato dalla preghiera e dalla penitenza, ad ogni modo, risultò il modo migliore per vincere l’ostinato zelo anticristiano di tanti cinesi, dato che secondo i cronisti lui da solo poté battezzare 20.000 cinesi. Dobbiamo peraltro tenere presente che, per la prima volta, i missionari cattolici si dirigevano direttamente alla popolazione di etnia e lingua cinese, e non a una delle molteplici nazioni presenti nel variegato impero dei khan in Cina.
Dopo diversi anni, il Francescano di Pordenone lasciò le città costiere dell’Est per dirigersi verso Pechino, dove poté conoscere e collaborare con il grande fondatore della missione in Cina, Giovanni da Montecorvino. Rimase a Pechino almeno tre anni, dal 1322 al 1325, ma poco sappiamo del suo operato: in generale – ed è un altro dettaglio curioso e significativo per gli storici – Odorico da Pordenone nella sua Relatio tace quasi completamente del suo operato in Cina, parlando quasi unicamente dei viaggi di andata, diffusamente, e di quello di ritorno, dove l’attenzione per i dettagli sfuma davanti alle grandi e misteriose avventure che lo videro protagonista. Fatto sta che nel 1325 il Beato riprese le vie dell’Occidente: per quale motivo si allontanò dalla missione cinese, quando ancora era in vita il da Montecorvino? Non sappiamo precisamente ma, per dare una risposta efficace, dovremmo prima risolvere la questione circa il senso generale del suo viaggio. Odorico era infatti un vero e proprio missionario, o piuttosto una sorta di “visitatore” mandato dalla Santa Sede? La tradizione interna all’Ordine lo ha dipinto nel primo senso, ma non mancano oggi le voci di chi – sulla base dello strano viaggio di andata e della sua Relatio – lo vorrebbe dipingere piuttosto come un inviato dalla Santa Sede per tracciare un quadro del panorama missionario ad est.
In realtà le due cose potrebbero andare insieme: non nutriamo dubbi che lo zelo missionario abbia condotto Odorico in quelle terre, mentre l’umiltà gli abbia fatto omettere qualsiasi riferimento al suo operato negli scritti da lui dettati. Allo stesso tempo può aver unito qualche missione e incarico ricevuto dall’Ordine o dallo stesso Santo Padre, mentre il viaggio di ritorno può benissimo spiegarsi come una missione affidatagli dallo stesso Montecorvino. Secondo la tradizione, infatti, tornò in Europa per raccogliere nuove vocazioni missionarie, ma la strada che scelse di percorrere, lungo territori non ancora toccati dai viaggi missionari dei frati mendicanti, fu forse una sua personale opzione, dettata dal desiderio di far arrivare ovunque la Parola di Dio.
Il viaggio di ritorno tra sovrani e demoni
Infatti – come abbiamo già accennato – il viaggio di ritorno ha suscitato negli appassionati della letteratura di viaggio e in quelli della storia delle missioni cattoliche maggiori interessi, proprio perché per la prima volta ci viene dato un resoconto e una descrizione di un viaggio tra le impenetrabili montagne del Tibet. Anziché ritornare alla costa e navigare a vista terra, il Frate di Pordenone preferì percorrere vie interne per giungere lì dove nessun missionario cattolico era mai giunto. Passò prima per il “regno del Prete Gianni”, ovvero probabilmente per il regno di Thenduc del principe Giorgio – il nestoriano convertito dal beato Giovanni da Montecorvino – per poi puntare direttamente al Tibet: visitò la capitale Lhassa e poté notare quindi le particolarità del buddhismo tibetano, facendo per la prima volta menzione in un documento storico del Dalai Lama, definito “il papa dei pagani”. Il quadro che ne emerge è in realtà ben lontano dall’irenismo con cui molti cattolici sogliono oggi descrivere il buddhismo tibetano: fra’ Odorico rimase scandalizzato dalle pratiche immorali dei buddhisti e, nonostante descrivesse con oggettività l’abbondanza di risorse alimentari e il divieto di versare sangue umano nella capitale, inorridì di fronte alla necrofagia da loro praticata. Quando infatti moriva un padre di famiglia i figli, invitati i vicini e i sacerdoti, ne portavano il corpo in campagna e, dopo averlo fatto a pezzi recitando delle preghiere, lasciavano che la carne venisse portata via da aquile e avvoltoi, sostenendo che questo fosse il segno che era un buon uomo, in quanto gli angeli di Dio lo portavano in cielo. A quel punto il figlio stesso poteva prenderne il capo, bollirlo, mangiarne la carne e fare del teschio un calice. Evidentemente non era comunque questa la peggiore delle pratiche idolatriche e inumane se lo stesso Francescano dichiara che «molte altre cose sozze si fanno da queste genti».
Non di meno interesse o meno stupefacenti le storie dell’“uomo delicato”, un grande signore che trascorreva la vita nell’ozio e nei piaceri della tavola e del corpo, o quella del “vecchio vegliardo”, che aveva costruito una sorta di “Paradiso terrestre”, pieno di delizie, nel quale faceva rinchiudere giovanotti perché, all’uopo, questi gli servissero come sicari per uccidere altri nobili.
Dal punto di vista missionario Odorico ci informa come, dato il numero altissimo di indemoniati tra i tartari, una delle attività principali dei Frati Minori che dimoravano nel territorio del gran Khan fosse proprio quello di scacciare i demoni e battezzare i pagani. Sempre a proposito di demoni, ci racconta della valle indemoniata, dalla quale nessuno era mai uscito vivo, o quello della “sirena” demoniaca, che chiamò frate Odorico per nome. Il Francescano, andandole incontro, le domandò se e come lo conoscesse, ma la risposta bastò a far capire a fra’ Odorico che non sarebbe stato bene avvicinarsi ulteriormente: «Purtroppo ti conosco bene: in Oriente mi hai rubato tante anime, cagionandomi gravissime perdite, e ora tornando in Europa, mediti di cagionarmene di maggiori. Ma non ti sarà dato di tornare».
La morte di Odorico
Purtroppo il demonio, menzognero e padre della menzogna, in questo caso non errò la sua previsione, in quanto Odorico, giunto in Europa, non riuscì più a tornare nell’amato terreno di missione. Non conosciamo bene i particolari delle vicende che seguirono al ritorno ma, fonti alla mano, sembrerebbe che il Francescano per diversi motivi non riuscì a raggiungere Avignone, dove avrebbe voluto incontrarsi con il Papa, per esporre i risultati della missione cinese e chiedere rinforzi. A causa dell’insorgere di una grave malattia dovette fermarsi a Pisa, dove si trovava in attesa di una nave per la Francia, e da lì fece ritorno nel convento di San Francesco di Udine, che sarebbe stata anche la sua ultima dimora, spirando per insufficienze respiratorie e complicazioni cardiache nel gennaio del 1331.
Per comando dei superiori dettò a un confratello le sue memorie del viaggio, alle quali in più occasioni abbiamo fatto riferimento, e le quali rimangono uno dei più imponenti componimenti di viaggio medievali.
Non si loderà mai abbastanza l’opera del Frate friulano il quale, nonostante i relativamente pochi anni trascorsi in missione, seppe rigenerare alla Vita eterna molti uomini tramite le acque del Battesimo. Ma in questa straordinaria eppur maledetta storia di cui ci apprestiamo a vergare le ultime righe, quello che poteva essere l’inizio di una conquista definitiva alla Cristianità delle terre cinesi, si rivelò in realtà l’inizio della fine e di un tonfo catastrofico... anche se di tutto questo, in tale occasione, non si può rimproverare i cattolici e la Chiesa, ma piuttosto scorgere la Provvidenza di Dio che anche negli avvenimenti avversi e apparentemente contraddittori opera con il fine stesso per cui Gesù è venuto al mondo: salvare le anime.
/ continua