Ucciso in odium fidei il 21 settembre 1990 mentre si dirigeva al lavoro, Rosario Livatino è il primo magistrato beato. Era finito nel mirino di gruppi mafiosi locali a causa – come si legge nel Decreto sul suo martirio – «della sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Dai persecutori il Servo di Dio era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante».
In ogni epoca e in ogni tempo, Dio nella sua infinita misericordia non ha mai smesso di additare la strada per il Paradiso agli uomini che volessero percorrerla. Ovunque e in qualunque situazione ne sceglie alcuni, come modelli da imitare. Essi sono lampade poste sopra il lucerniere per illuminare ciascun cristiano. Una di queste è il magistrato Rosario Livatino.
È a tutti ben noto il momento di crisi drammatica e devastante della magistratura italiana che vede coinvolti anche alti esponenti dell’ANM (1), per cui la sua beatificazione, avvenuta nel duomo di Agrigento il 9 maggio scorso, sembra provvidenziale.
Ci potremmo domandare perché mai tanta attenzione nei confronti del dottor Livatino e non altrettanta per Falcone e Borsellino che condividevano con il Beato l’alto senso del dovere e una vita professionale incorruttibile?
La risposta potremmo sintetizzarla nel modo di concepire la giustizia. Per il beato Livatino, rendere giustizia non era solo applicare delle norme, punire dei colpevoli, servire il corpo sociale dello Stato; significava qualcosa di più: era dedizione di sé a Dio. Per questo non indietreggiò di fronte a nulla, non si sottrasse dal partecipare a processi decisionali i cui provvedimenti erano contro personaggi della criminalità organizzata che vivevano nello stesso paese del giudice, a pochi metri da casa sua (2).
Sarebbe lecito chiedersi come mai il magistrato non abbia pensato di cautelarsi, cambiando abitazione, visto che nel suo stesso stabile viveva addirittura un capo cosca? (3) Secondo il Procuratore capo Domenico Airoma, coautore del libro Un giudice come Dio comanda (4), studioso e appassionato della figura del Beato, la risposta è da ricercare nel fatto che Rosario Livatino viveva la sua professione come una missione, e quindi scegliere di vivere in un posto diverso da dove Dio lo aveva collocato sarebbe stato come un tradire la sua vocazione. Basterebbe questa nota per sottolineare la finezza d’animo e la profondità spirituale del magistrato.
Sarebbe estremamente complesso racchiudere in poche righe la dimensione spirituale del beato Rosario Livatino, uomo di estrema riservatezza. Ci limitiamo a considerare pochi aspetti, mentre rimandiamo alla lettura del libro per scoprire il suo profilo professionale e umano.
Il Beato nei suoi giudizi era sempre rispettoso della persona chiamata ad essere giudicata. Un episodio significativo ci aiuterà a comprenderlo. Un giorno fu ucciso un mafioso e un membro dell’arma commentò in sua presenza che c’era un delinquente in meno da combattere. Il Giudice lo riprese dicendo: «Di fronte ad una morte il cattolico prega, l’ateo tace». Oppure quando il giorno di Ferragosto si presentò lui stesso al carcere di Agrigento per consegnare un decreto di scarcerazione e ottenere la liberazione immediata di un detenuto, tra la meraviglia degli agenti di vederlo svolger il suo dovere proprio in un giorno di festa.
Rosario Livatino è l’uomo che quando prestò giuramento da magistrato annotò con inchiostro rosso, quasi premonitore della responsabilità della carica che avrebbe ricoperto usque ad effusionem sanguinis (5): «...Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige» (6).
Quando il Beato presagì il pericolo di morte, non chiese mai la protezione di una scorta per non mettere a rischio la vita di padri di famiglia e quando, quel tragico 21 settembre del 1990, la Stidda (7) giustiziò il magistrato, il giudice caduto a terra, già raggiunto da alcuni colpi d’arma da fuoco, guardando negli occhi i suoi assassini disse: «Che cosa vi ho fatto?». La frase richiama il passo biblico del profeta Michea, quando il Signore parla con la sua bocca al popolo d’Israele. Una frase che sarà come un martello nella coscienza dei suoi killer, fino ad ottenere un pentimento profondo e sincero di uno dei quattro partecipanti all’omicidio, Gaetano Puzzanghero.
Possiamo escludere completamente che Rosario abbia voluto volgere quella domanda sperando nel loro ravvedimento, per la salvezza della loro anima, più che della sua vita?
Applicare la giustizia, abbiamo detto, per il beato Rosario Livatino era l’equivalente della dedizione totale della propria vita a Dio. Il giudice applicò questo principio fino all’ultimo istante della sua esistenza. Quella domanda: “Che cosa vi ho fatto?”, sembra l’equivalente di: «Do la mia vita per la vostra conversione».
Ed è un’ipotesi verosimile, visto quanto racconta don Giuseppe Livatino il postulatore diocesano della causa di canonizzazione. Don Giuseppe volle conoscere Gaetano Puzzanghero ed in silenzio pregò il magistrato vittima dell’agguato di far sentire all’aggressore l’abbraccio del suo perdono. Questa preghiera restò nel segreto del cuore di don Giuseppe. Fu una confidenza fra lui e il Beato. Dopo l’incontro, Gaetano confessò di aver sentito nell’abbraccio di don Giuseppe quello di Rosario Livatino.
In questo episodio Rosario Livatino sembra aver offerto un segno per approfondire la riflessione sul rapporto di perfetto equilibrio tra giustizia e misericordia.
Note
1) Associazione Nazionale dei Magistrati.
2) Si parla di Canicattì, in provincia di Agrigento e del capo cosca Antonio Ferro che viveva al numero 4 di Piazza Roma, vicino all’abitazione dei genitori del giudice.
3) Il riferimento è al capo provinciale di Cosa Nostra, Giuseppe di Caro.
4) Alfredo Mantovano - Domenico Airoma - Mauro Ronco, Un giudice come Dio comanda. Rosario Livatino, la toga e il martirio, Edizioni Il Timone.
5) Anche versando il sangue.
6) Alfredo Mantovano - Domenico Airoma - Mauro Ronco, Un giudice come Dio comanda. Rosario Livatino, la toga e il martirio, p. 67.
7) La Stidda è il nome di un nuovo gruppo emergente di criminalità organizzata degli anni ’80 con un’identità autonoma dalla ben nota famiglia criminale siciliana denominata Cosa Nostra.