FEDE E CULTURA
Santi avventurieri francescani in Cina /3
dal Numero 28 del 25 luglio 2021
di Carlo Codega

Dopo 1.800 km di navigazione lungo il famoso Canale Imperiale, fra’ Giovanni giunge finalmente a Pechino con il suo compagno. è il 1294 e viene accolto da una cattiva notizia: il gran khan tanto favorevole al Cristianesimo è appena morto. Ma c’è un altro ostacolo a sbarrare la strada a questo coraggioso Frate francescano, unico sacerdote cattolico nell’immensa capitale dell’impero mongolo...

Gli ostacoli e le prime conquiste

Questo secondo e più impegnativo ostacolo fu costituito dal fatto che, contrariamente a quanto sperato e promesso dal patriarca nestoriano e dai suoi emissari, i nestoriani di Kambaliq e, in generale, di tutta la Cina non avevano molta intenzione di collaborare con il Frate italiano e, anzi, dimostravano di volergli mettere i bastoni tra le ruote. Questo cristianesimo cinese ormai da secoli radicato e assurto, nelle ultime generazioni, a posizioni molto vicino alle leve del comando, soffriva certo di penuria di vocazioni sacerdotali e di una certa atrofia, ma non aveva alcuna intenzione di lasciarsi vivificare e aiutare dalla Chiesa Cattolica. Non erano certo le materie teologiche a costituire un problema, quanto piuttosto l’attaccamento alle proprie tradizioni e la paura di perdere posizioni politiche acquisite. Fatto sta che l’ostilità verso fra’ Giovanni da Montecorvino non si dimostrò solo con la mancanza di aiuti, bensì con vere e proprie calunniose accuse, portate al cospetto dell’Imperatore, che già non vedeva di buon occhio il missionario italiano. Temuta l’intraprendenza del Francescano, si fece di tutto per squalificarlo agli occhi del neo gran khan, presentandolo come un vagabondo, un ciarlatano e un impostore, come un falsificatore delle carte bollate che portava con sé, o addirittura, con una calunnia poco sensata, come colui che avrebbe ucciso il vero messo papale, rubandogli poi le bolle originali che teneva con sé. Proprio per questo, per ben tre anni, il gran khan gli impedì qualsiasi forma di apostolato pubblico. Ciò comunque non fece né intimorire né sfiduciare il nostro Frate che, con spirito missionario e pazienza tipicamente serafica, per ben tre anni si mise allo studio della lingua cinese e tartara, a quello dei costumi locali e alla pianificazione di un’attività missionaria efficace. 

Nel frattempo, comunque, non mancava di cercare di illuminare e persuadere con la propria scienza e la vita virtuosa sulla verità del Cattolicesimo e, proprio nel palazzo imperiale di Pechino, poté guadagnare alla causa cattolica una principessa dello Shenshi che, di lì a poco, sarebbe divenuta moglie del gran khan e poi, addirittura, fervente apostola della Religione di Cristo anche nelle sue terre natali.

Il trionfo missionario

Nel 1297 finalmente venne l’ora dell’apostolato pubblico: grazie alla buona mediazione presso il sovrano operata da coloro che aveva convertito e con cui era venuto a contatto, gli fu permesso di iniziare, secondo il volere già espresso da Kublai khan, una vera e propria opera evangelizzatrice e missionaria. 

Non sappiamo molto circa la sua attività e ciò che sappiamo è piuttosto quello che possiamo leggere nell’unico documento superstite su di lui, ovvero le sue lettere mandate in Occidente e, in particolare, a Roma. Sicuramente la sua opera non si rivolse immediatamente e soprattutto alla popolazione cinese, ritenuta ancora troppo ostile, ma piuttosto ai numerosi stranieri che, a seguito dei mongoli, avevano ormai da decine di anni contribuito alla crescita di questa nuova grande capitale dell’impero mongolo. Comunque i numeri delle conversioni da lui operate dovettero essere enormi: se nel solo 1305 riuscì a battezzare 6.000 persone, ciò significa che nel corso della sua intera opera apostolica di 34 anni, tra il 1297 e il 1328, non è difficile ipotizzare che la neo comunità cattolica abbia potuto contare fino a 50.000 battezzati, e tutto questo rimanendo l’unico sacerdote cattolico. 

Dalle lettere che lui stesso scrisse sappiamo poi come un aspetto particolare della sua opera fosse anche quello del riscatto degli schiavi, soprattutto dei fanciulli. Nonostante i notevoli miglioramenti morali dei mongoli nel corso degli anni, rimaneva a questi soldati intrepidi il vizio delle razzie, in cui non solo tesori e beni venivano confiscati, ma anche le persone, trattate come beni materiali per essere venduti nei mercati orientali. Fra’ Giovanni, intristito da questa miseria morale, si propose di raccogliere soldi per riscattare i fanciulli cinesi, concependo anzi un piano apostolico per questi. Come in una specie di piccolo seminario minore, i fanciulli redenti venivano istruiti nel canto liturgico e nella conoscenza della lingua latina, affinché potessero collaborare con fra’ Giovanni da Montecorvino, ma senza costringerli ad abbracciare lo stato clericale. Allo stesso tempo si poneva il problema di dove svolgere le funzioni liturgiche per questa massa sempre crescente di popolo. Se già nel 1299, due anni dopo l’inizio dell’apostolato, gli era stato possibile costruire a Pechino una chiesa con campanile, nel 1305 l’amico Pietro da Localuongo fece dono alla comunità cristiana di un grande terreno davanti al Palazzo Imperiale, dove si poté erigere una chiesa capace di ospitare più di 200 persone. Nel frattempo, comunque, il nostro Frate missionario non cessò di studiare le lingue locali: nel crogiuolo di lingue che si incontravano tra i crocicchi di Kambaliq, fra’ Giovanni optò per approfondire la lingua tartara piuttosto che il cinese, traducendo in questa il Salterio e il Nuovo Testamento, e progettando una traduzione dell’intero Breviario. Nel frattempo compose e fece stampare anche Innari e Salteri, dando molta importanza e cura alla Liturgia come mezzo di evangelizzazione.

Il principe Giorgio

La scelta del tartaro era forse dovuta alla volontà di raggiungere la maggioranza della popolazione e di usare una sorta di lingua franca, ma forse tale opzione non era del tutto scollegata dalla volontà di porgere una mano ai cristiani nestoriani lì presenti, i quali erano particolarmente numerosi nell’etnia dei Tatari bianchi, o Ongut, i quali parlavano una lingua tartarica, della famiglia delle lingue turcofone. E proprio tra questi Tatari bianchi il nostro fra’ Giovanni poté guadagnare una delle sue migliori conquiste apostoliche: la conversione del principe Giorgio, un nestoriano che, grazie all’opera di fra’ Giovanni, divenne un fervente cattolico romano, fino a ricevere anche gli Ordini minori. Questo appoggio non solo permise di estendere l’opera apostolica fuori Pechino, nella regione di Tenduc, dove alla fine si poté costruire una chiesa dedicata alla Santissima Trinità. 

La figura di questo principe Giorgio peraltro rimane molto misteriosa nel contesto storico dell’epoca: questo grande benefattore e promotore della cattolicità in Cina, infatti, sembra una nuova “reincarnazione” della leggendaria figura del “prete Gianni”. Già da diversi secoli prima infatti le cronache parlavano dell’esistenza nell’Oriente “infedele” di un potentissimo, ricco e saggio principe cristiano che, alla fine, avrebbe salvato la Cristianità europea dall’islam. Non a caso, dunque, molti ritengono che le pagine dedicate al “Prete Gianni” da Il Milione di Marco Polo, riguarderebbero proprio il principe cattolico Giorgio. Fatto sta che questa conquista apostolica fu pagata a spese di molte tribolazioni: i cristiani ferventemente nestoriani, sfruttando le loro ampie conoscenze a corte, male accolsero questa conversione – che avrebbe potuto significare la fine della loro autonomia – e intensificarono la loro campagna calunniosa contro Giovanni da Montecorvino, il quale fu accusato nuovamente di essere un mago e uno stregone, e vide nuovamente limitato dall’Imperatore il suo raggio d’azione.

Lo sviluppo missionario

Se già gli scarni dati di cronaca offerta fanno stupire i Lettori sulla fecondità dell’opera evangelizzatrice del Francescano di Montecorvino, ancora più stupefacente è considerare attentamente come quegli fosse l’unico sacerdote cattolico presente in quelle terre. Per undici lunghissimi anni egli rimase da solo, privato non solo della sua comunità francescana, ma anche della possibilità di confessarsi da un altro sacerdote cattolico. Solo dal 1304 infatti poté godere di un compagno, ovvero del suo confratello francescano fra’ Arnaldo da Colonia. Proprio per questo nel 1307, mentre ad Avignone papa Clemente V aveva convocato il concistoro cardinalizio, giunse inaspettatamente e tra la curiosità universale una lettera di fra’ Giovanni da Montecorvino con cui chiedeva al Papa sostegno e aiuto, in particolare inviando missionari per continuare ed espandere il lavoro apostolico. Questa missiva d’altronde seguiva quella dell’anno precedente, in cui si rivolgeva ai generali degli Ordini domenicano e francescano per l’invio di frati preparati nella dura missione cinese. Con l’intervento papale, comunque, il desiderio di fra’ Giovanni divenne un ordine dato dal Sommo Pontefice al ministro generale dei Frati Minori, Gonzalo di Spagna, perché scegliesse 7 francescani e, dopo averli fatti ordinare vescovi, li inviasse in Cina, allo scopo di fondare diverse diocesi, alle quali si mettessero a capo, e nel frattempo consacrare vescovo il grande Missionario francescano, attribuendogli il titolo di arcivescovo metropolita di Kambaliq, con giurisdizione praticamente su tutto l’Oriente. Il motivo per cui i frati dovevano essere ordinati vescovi era legato al fatto di voler dare vita a una Chiesa duratura e forte, per la quale erano necessari vescovi che amministrassero le Cresime e ordinassero i sacerdoti. 

Ancora una volta però, nonostante le buone intenzioni, i frutti non furono all’altezza delle aspettative: dei 7 vescovi partiti, solo 3 arrivarono a destinazione in quanto, lungo il rocambolesco viaggio, 3 resero la vita a Dio appena sbarcati in India, mentre uno ritardò di molti anni la sua partenza... nuova pagina di questa storia tanto affascinante quanto misteriosa dell’espansione missionaria in Cina. 

Tra i tre arrivati comunque, insieme ad Andrea di Perugia e Gerardo Albuini, possiamo contare anche Pellegrino da Castello, il quale fu tra i più affezionati prosecutori dell’opera di fra’ Giovanni. Fatto sta che l’arrivo di questi nuovi missionari-vescovi permise l’ordinazione episcopale dello stesso fra’ Giovanni da Montecorvino, oltre che un ulteriore impulso all’evangelizzazione, in quanto insieme ad essi arrivarono anche numerosi missionari. Nel 1311 poi i tre vescovi deceduti furono sostituiti e così si poté ben organizzare la struttura ecclesiastica della Cina. 

La vita straordinaria del Frate campano – di cui non conosciamo altri particolari – si chiuse nel 1328 dopo 34 anni di apostolato in quelle terre difficili, ma i suoi meriti non vennero riconosciuti sin da subito: la sua fama di santità, viva soprattutto tra i frati minori, rimase oscurata dalle vicende storiche e dalla distruzione di molti documenti e solo nel 1924 i vescovi cinesi chiesero che venisse ufficialmente riconosciuto il titolo di beato, ma la loro petizione non ha ancora ricevuto risposta.

 

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