È possibile un “francescanesimo militante” o addirittura “militare”? Lo giudicherà il Lettore del presente volume, composto di dieci racconti documentati e affascinanti dedicati ad altrettanti “guerrieri serafici”, cuori di santi in mezzo al rumore dei campi di battaglia, splendidi eredi dell’ideale cavalleresco del Serafino d’Assisi.
«Chi siete voi? quando e donde siete venuti? a che v’occupate e v’intromettete nelle cose nostre, voi, che non appartenete affatto a noi, che non siete dei nostri? [...] È casa mia questa; questi sono possessi miei; come può avvenire che voi altri tutti, secondo il piacimento vostro, seminiate e raccogliate pascolo in queste mie terre? È mia questa terra: ve l’assicuro; da tanto tempo è mia; ed è chiaro il diritto di priorità che io ne ho su di voi, e delle prove non me ne mancano e son prove sicure, autentiche e le traggo proprio dai loro primi ed autentici padroni». Così Tertulliano apostrofava i vari Marcione, Valentino, Apelle nel De praescriptione haereticorum, circa il legittimo possesso della Sacra Scrittura; allo stesso modo ci si potrebbe rivolgere oggi ai pacifisti che falsificano il Cristianesimo in generale e il Francescanesimo e la figura del suo Fondatore in particolare, siano essi laici o clericali, e anche a quelli rivestiti del saio.
Nel libro appena uscito per i tipi di Tabula Fati e intitolato Guerrieri serafici (di Ambrogio M. Canavesi e Wawrzyniec M. Waszkiewicz, Chieti 2021, euro 13) si legge appunto: «Se tutta la Chiesa militante [...] è stata colpita da questa pericolosa “demilitarizzazione”, ciò è accaduto in modo particolare a san Francesco e ai suoi figli. Il santo che dappertutto portava “pace e bene” dovette soffrire una incomprensione simile a quella che toccò a Gesù stesso. Ma anche la pace di san Francesco, come quella del suo Maestro, non è di questo mondo e dunque il mondo non la può comprendere... Francesco d’Assisi era un uomo cavalleresco fino al midollo delle ossa. E sulla sua scia i suoi fedeli discepoli, che da più parti vennero chiamati “serafica milizia”».
Quest’opera rivendica a buon diritto la legittima eredità del Francescanesimo ai suoi autori, perché lo mostra nella sua storia ininterrotta di milizia esercitata tanto a livello spirituale, quanto contro nemici esterni che sono stati di volta in volta l’islam, il protestantesimo, la Massoneria, e perché colloca gli autori stessi, santamente agguerriti, nella fase attuale di questa storia, nella loro qualità di sacerdoti consacrati all’Immacolata, fedeli all’esempio di san Massimiliano Maria Kolbe. Proprio all’eroico Santo della carità è infatti dedicato l’ultimo dei dieci profili di francescani, tratteggiati in forma di racconto, che compongono il volume, una delle caratteristiche del quale è seguire i protagonisti fin nel mezzo delle battaglie in cui talvolta figurarono addirittura come condottieri (fu il caso di san Giovanni da Capestrano a Belgrado e di padre Luka Ibrišimovi?), o in cui furono coinvolti loro malgrado (come santa Chiara, insidiata con le consorelle dai saraceni nel proprio monastero stesso), sempre guidati tuttavia dal senso del soprannaturale.
Ma gli autori, che alla conoscenza storica abbinano una consumata abilità narrativa, non ci mostrano solo scene di assedi, di battaglie navali, di guerra totale: la varietà dell’ambientazione è uno dei grandi pregi dell’Opera, per cui troviamo i nostri “guerrieri serafici” nei consigli di guerra come a colloquio con re e papi, a predicare in piazze gremite come in meditazione nei recessi del chiostro.
Notevole anche la varietà stilistica, grazie all’apporto da parte dei due “Scrittori serafici” delle proprie rispettive sensibilità artistiche a questo loro comune lavoro: all’unitarietà concettuale definita sin dall’introduzione e dal capitolo iniziale sul Patriarca (dalla cui vita sono ben individuate le radici cavalleresche del carisma francescano) corrispondono ora l’azione incalzante, intessuta di sapienti chiose, e il dialogo serrato, nell’alternarsi dei quadri che allargano la visuale nella quale si compongono gli eventi, ora inflessioni di devozione affettiva che sono vere elevazioni spirituali, favorite dall’uso del flashback e di strutture di racconto fitte di mistici rimandi provvidenziali. Tra le cose meglio riuscite del libro c’è senz’altro come sono state preparate l’attesa della rivelazione del fallo di padre Anselmo da Pietramelara e la sorpresa per la reazione di san Pio V, in un episodio pervaso dal sollievo per il trionfo di Lepanto, che lo scrupolo del Cappuccino fa solo risaltare; la descrizione della fine di Tycho Brahe poi induce al riso e al contempo lascia in cuore un misto di ammirazione e commiserazione per l’eroismo mal speso dal miscredente astronomo, e sebbene nella nota bibliografica al capitolo (su san Lorenzo da Brindisi) la sua vicenda venga detta marginale rispetto alla storia ivi narrata, in verità ne rappresenta simbolicamente uno degli assi principali.
I racconti si possono certamente leggere indipendentemente l’uno dall’altro, ma solo la loro ideale concatenazione rende appieno il messaggio di padre Ambrogio Maria Canavesi e di padre Wawrzyniec Maria Waszkiewicz; c’è da augurarsi che quanti più lettori lo facciano proprio.