In occasione del centenario, offriamo allo sguardo dei Lettori una perla che l’Alighieri ha fissato nell’XI canto del suo Paradiso. Ancora una volta nulla manca alla penna ispirata del Sommo Poeta, che restituisce intatta e sublimata in versi limpidi e ardenti tanto la «mirabil vita» del Santo, quanto «l’ignota ricchezza» del carisma francescano, fatto di povertà cercata, abbracciata e amata, di vita fraterna e lieta, di amore fedele alla Chiesa Romana.
San Francesco è citato alcune volte, in modo diretto o indiretto (1), nella Commedia dantesca, ma nel Paradiso (e precisamente nel canto XI) un intero episodio è a lui dedicato: un episodio che riunisce sia i dati puramente biografici che quelli di carattere più propriamente elogiativo.
Dante e Beatrice si trovano nel quarto cielo, quello del Sole, il primo in cui gli spiriti dei Beati compaiono sotto forma di luci, senza più alcun ricordo del loro aspetto umano, seppur sottilissimo e diafano, come nei tre cieli precedenti. In questo spazio orbitale percorso dal Sole (ricordiamo, per inciso, che Dante vive al tempo del sistema astronomico tolemaico, secondo cui il Sole, come tutti gli altri corpi celesti, ruota intorno alla Terra, vero centro dell’universo) il Poeta incontra, in due momenti successivi, 24 beati, disposti in due cerchi concentrici di 12 luci ciascuno. Il cerchio simboleggia la perfezione della Sapienza divina e le anime disposte secondo tale figura geometrica sono dunque i rappresentanti di quella sapienza che, occupandosi della scienza divina, ha conquistato la beatitudine eterna. Una delle anime del primo cerchio di 12 è quella di san Tommaso d’Aquino, appartenente all’Ordine domenicano, considerato – ed a ragione – il più grande teologo e filosofo del Cristianesimo medievale, e non solo. L’anima di san Tommaso è l’unica che dialoghi con Dante: presenta se stessa e le altre 11 anime, dopo di che dichiara di voler sciogliere due dubbi che Dante ha concepito (e san Tommaso lo sa poiché vede in Dio i pensieri di Dante stesso prima ancora che egli li esterni parlando) relativi ad alcune parole da lui dette nella presentazione degli spiriti beati.
Vediamo innanzi tutto lo schema dell’intervento che Dante fa pronunciare a san Tommaso, in cui il Poeta utilizza l’abito logico-consequenziale nella distinzione dell’argomento, tipica del procedere che san Tommaso derivò, cristianizzandolo, dal filosofo greco Aristotele (e perciò definito “aristotelico-tomistico”).
L’obiettivo cui si vuole giungere è chiarire il perché dell’attuale (dei tempi di Dante) decadenza dell’Ordine domenicano. Pertanto Dio, tra la fine del secolo XII e gli inizi del XIII, visto lo stato di debolezza della sua Chiesa, ha inviato in suo aiuto due “campioni” (san Francesco e san Domenico), la cui opera si mosse talmente all’unisono che parlare ora di uno equivale esattamente a parlare dell’altro. Dunque egli, san Tommaso, dirà sì di entrambi, ma tuttavia, per opportunità, non parlerà del fondatore dell’Ordine cui egli appartenne (cioè san Domenico), bensì dell’altro (san Francesco), per arrivare poi, nella conclusione, a stigmatizzare appunto le colpe del proprio Ordine domenicano.
La struttura del canto
L’esposizione di questa introduzione (o “prolessi”) occupa i vv. 28-42, mentre dal v. 43 inizia il vero e proprio elogio di san Francesco; mentre, dal v. 118, si avrà la polemica sulla condizione di decadenza dell’Ordine dei Predicatori.
Partiamo dunque dall’inizio dell’elogio dell’Assisiate. Tale elogio, a sua volta, si suddivide in vari segmenti, che si ritroveranno poi, analoghi, nell’elogio di san Domenico presente nel canto successivo: dapprima la descrizione geografica del luogo di nascita del Santo (vv. 44-54), la giovinezza di Francesco (vv. 55-75), fase che si conclude con le nozze allegoriche tra Francesco e la Povertà; abbiamo poi l’accenno ai primi seguaci di Francesco e, conseguentemente, ai primi inizi dell’Ordine (vv. 76-87), con le approvazioni papali della Regola (vv. 88-99); infine gli ultimi anni, con la missione di Francesco presso gli infedeli, il suo ritorno in Italia, il soggiorno presso l’eremo della Verna, le stigmate e la morte (vv. 100-117). Segue poi, come detto, la sezione conclusiva di critica alla corruzione dell’Ordine domenicano.
Ricordando che tutti gli episodi citati da Dante si fondano sulla lettura delle più antiche fonti agiografiche francescane, in particolare (ma non solo) quella redatta da san Bonaventura, che (e non è certo un caso) prenderà la parola nel canto seguente del poema, vediamo che la prima sezione è dunque dedicata alla descrizione dei luoghi in cui Francesco nacque ed iniziò la sua missione.
Il Poeta intraprende la sua descrizione avendo in animo una metafora, per altro già presente nella Vita beati Francisci di san Bonaventura: san Francesco è il sole che ai suoi tempi ha illuminato il mondo. Pertanto, dopo i primi otto versi puramente geografici, descriventi la posizione di Assisi, individuata, ma non ancora definita col suo nome, nella sua collocazione sotto il monte Subasio e tra i fiumi Topino e Chiascio, si dice che in questa località nacque, per il mondo, un Sole (v. 50). Conseguenza di ciò è che la località in cui questo Sole nacque non dovrà più chiamarsi Assisi (ma Dante preferisce la forma arcaica Ascesi, che ha un valore chiaramente simbolico), che sarebbe ormai forma troppo «corta», cioè insufficiente, ma in modo semplice ed assoluto, Oriente, cioè il «luogo in cui il Sole sorge» (vv. 52-54).
Seconda fase: la giovinezza. Proseguendo nella metafora del sole (tanto più incisiva in quanto utilizzata proprio nel canto che si svolge nel cielo del Sole), il Poeta ci dice che l’opera di Francesco iniziò prestissimo: «Non era ancor molto lontan da l’orto» (v. 55), in cui “orto” è ovviamente un latinismo nel senso di “nascita”, se è vero che ancora «giovinetto» (v. 58) non esitò ad entrare in conflitto col padre per poter sposare la donna di cui era innamorato.
La sola sua Sposa
Si dà così inizio ad una nuova, ed arditissima, metafora, molto estesa (vv. 58-72). Francesco sposa una donna di cui non si fa il nome, ma di cui si cantano semplicemente le lodi, fino al suo disvelamento (vv. 73-75): è la Povertà. Per essa Francesco abbandonò ufficialmente la sua famiglia (e la sua ricchezza) davanti al vescovo ed alla sua curia (ecco, metaforicamente, le “nozze”) e di essa amò la sua stessa sostanza naturale, cioè tutto ciò che nessun altro uomo avrebbe mai potuto amare («a cui, come a la morte, / la porta del piacer nessun diserra»: vv. 59-60). Non solo, ma la metafora continua nella figura della sposa, vedova da circa mille e cento anni del primo marito, cioè Cristo, istituendo così un paragone diretto tra Cristo e Francesco (alter Christus). A questo punto Dante inserisce, come è sua abitudine, la citazione dotta di un episodio tratto dalla cultura classica (quello di Cesare ed Amiclate, citato dal poeta latino Lucano), a cui – sempre come d’abitudine – si accosta la memoria evangelica della fedeltà e della coerenza (v. 70: «Costante... feroce»: ancora due latinismi per “coerente e fiera del suo amore”) della Sposa, che, mentre la madre (Maria) stette ai piedi della Croce del Figlio, salì su di essa col suo Sposo (Cristo morì “nudo” ed offeso, e quindi, simbolicamente, in compagnia della sola sua sposa, la Povertà).
Si giunge così alla conclusione esplicita, anche se già da noi intuita: gli sposi sono il Santo e la Povertà («Francesco e Povertà per questi amanti / prendi oramai nel mio parlar diffuso»: vv. 74-75).
Gli inizi dell’Ordine
Le nozze simbolicamente mistiche tra Francesco e Povertà aprono la terza parte della narrazione, quella relativa agli inizi dell’Ordine. Infatti è proprio l’esempio di amore e letizia dato dai due sposi ad attrarre i primi discepoli, il cui accostarsi alla disciplina francescana è sintetizzato in un gesto concretamente attuato e dal Poeta visivamente descritto: lo scalzarsi, il camminare scalzi, a sottolineare la completa ed immediata dedizione dei primi discepoli all’aspetto più nuovo ed insieme più antico della vita del Santo, cioè la ricerca e l’accettazione della povertà come unico possibile stile di vita. Ecco allora che “si scalza” per primo il «venerabile Bernardo» (v. 79), cioè Bernardo di Quintavalle di nobile ed antica famiglia di Assisi, poi «scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro / dietro a lo sposo, sì la sposa piace» (vv. 83-84), vale a dire altri due assisiati, il giovane e poco colto Egidio ed il prete Silvestro, dei quali non si hanno molte altre notizie. La sezione si conclude, in perfetto equilibrio con lo “scalzarsi” iniziale, con un altro accenno all’umiltà ed alla povertà dei primi francescani: quella che è detta una «famiglia» (la metafora continua ed in qualche modo anche si conclude: dagli “sposi” nascono “figli”, cioè i discepoli, osservanti della Regola) portava già come segno distintivo «l’umile capestro» (v. 87), cioè il cordone in luogo della cintura a legare il saio.
I “sigilli pontifici”
Il richiamo al non essere Francesco di famiglia aristocratica (suo padre, Pietro Bernardone, era infatti un ricco, ma non nobile, mercante) apre la sezione successiva della biografia, quella dedicata alle prime due approvazioni papali della Regola. Infatti, la prima approvazione, cioè quella verbale di Innocenzo III, avviene dopo che Francesco rivelò «regalmente» (v. 91) al pontefice la sua regola. Proprio l’avverbio “regalmente” è particolarmente significativo, e non solo nel suo valore intrinseco (Francesco parla da re a re col Papa, non dimenticando che la vulgata sul Santo, ancora fino a buona parte del secolo XX tendeva a darci di lui un’immagine che, oltre all’umiltà ed alla povertà, ne metteva anche in luce una scarsa preparazione culturale, cosa assolutamente non vera), ma tanto più significativo in quanto dal Poeta è molto abilmente messo in contrapposizione con «viltà di cuor» del v. 88. Non solo quindi Francesco non si vergognò, abbassando lo sguardo, di essere figlio di mercante, e di apparire in sovrappiù «dispetto a maraviglia» (v. 90), cioè talmente umile e dimesso (il latinismo “dispetto” vale anche qualcosa di più: “Degno di disprezzo”) da destare meraviglia in chi lo guardasse, ma addirittura parla regalmente, da pari a pari, con un altro re.
La narrazione della seconda approvazione, quella scritta firmata da Onorio III, ma che in realtà proveniva da Dio (v. 98: «Fu per Onorio da l’Etterno Spiro») ci porta nei suoi versi ad un’atmosfera già paradisiaca: lo attestano la dichiarazione che la vita del Santo, definita “mirabile” (cioè degna di ammirazione), meriterebbe di essere cantata«in gloria del ciel» (v. 96), l’uso di due termini dotti quali il latinismo «redimita» (cioè incoronata, v. 97) e addirittura il grecismo (fenomeno molto raro in Dante) «archimandrita» del v. 99, che vale “pastore, capo spirituale di un ordine”, e ancora l’uso del sostantivo «corona» (v. 97), che ci colloca nell’ambito della vittoria e del martirio, e infine dell’aggettivo «santa», riferito all’intenzione («voglia») del Santo di vedere la sua Regola approvata in modo definitivo, cioè con l’autorità di una bolla papale.
Ultimi anni e “ultimo sigillo”
Si passa ora alla parte conclusiva della biografia del Santo, in cui in meno di 20 versi, si raccontano, prima, la sua missione in Egitto nel tentativo di convertire il Soldano (al quale si riserva l’aggettivo «superbo») e la sua gente, missione iniziata per desiderio di “testimonianza” (così va inteso il «martiro» del v. 100, nel suo più preciso valore greco), ma interrotta poi, vista l’impossibilità di convertire gli infedeli ancora «acerbi», per non sprecare il suo tempo e dedicarsi così al «frutto de l’italica erba» (v. 105), cioè ai buoni risultati che si potevano conseguire in Italia. Abbiamo poi il ritirarsi nel duro eremitaggio del monte della Verna («crudo sasso», cioè monte inospitale), posto nell’alta Toscana tra la valle del Tevere e quella dell’Arno, durante il quale ricevette il terzo ed ultimo «sigillo» (v. 107), cioè approvazione alla propria Regola (e sigillo è la stessa parola già usata al v. 93 per indicare la prima approvazione papale), vale a dire le stigmate, ricevute non da un rappresentante (il papa) ma direttamente da Cristo e che egli portò nel suo corpo per due anni (1224-1226). Si chiude l’episodio con la morte del Santo, vista come il giusto premio da Dio, premio ottenuto grazie alla sua umiltà (v. 111 «nel suo farsi pusillo», cioè “piccolo”), raccomandando ai suoi eredi, i suoi frati, la sua sposa (v. 113: «La donna sua più cara», la Povertà), affinché l’amassero fedelmente. Nel canto successivo per bocca di san Bonaventura si leggerà come, purtroppo, questa eredità non fosse stata conservata nel suo giusto valore, causando nell’Ordine la divisione tra “spirituali” e “conventuali”.
L’ultima immagine che il Poeta ci consegna del Santo ci rappresenta in modo mirabile l’idea cristiana dell’uomo come unione perfetta (Aristotele avrebbe parlato di sinolo) di anima e di corpo: l’anima di Francesco, detta «preclara» (termine mai altrove usato da Dante) per tradurre praefulgida e praenitida delle biografie bonaventuriane, vola direttamente in cielo, mentre il corpo, per volere del Santo stesso, viene inumato direttamente nella terra (v. 117): «E al suo corpo non volle altra bara».
* * *
Mi si consentano ora alcune poche considerazioni personali. Ho sempre ritenuto il Paradiso la più bella delle tre Cantiche dantesche (sia per gli argomenti trattati che per il valore poetico) e questa mia opinione mi ha portato spesso – negli anni di insegnamento liceale – a trovarmi in pieno disaccordo con la maggior parte (non tutti, fortunatamente) dei colleghi che, in ossequio alla loro preparazione (quando c’era...) di taglio laicistico-radicaleggiante, tendevano a sopravvalutare l’Inferno (“che sa tanto di uomo e poco di Dio...”) a discapito di Purgatorio e (appunto) Paradiso. Delle polemiche coi colleghi poco mi cale (così come poco mi caleva allora), ma ciò che mi ha sempre disturbato è stato il fatto che, con questo comportamento conseguente alle loro idee, essi abbiano stravolto (se non rovinato) le menti di molti loro allievi che, purtroppo, hanno dovuto recepire insegnamenti poco aderenti alla Verità ed alla Bellezza, trovandosi così limitati nell’apprendimento di molti argomenti che i loro docenti non hanno neppure toccato (vedasi appunto il Paradiso), in quanto da loro ritenuti meno interessanti, se non addirittura inutili. A ciò si aggiunga anche il deleterio influsso di altri “cattivi maestri”, quali attori e guitti di vario genere, che da qualche anno a questa parte si sono impadroniti del poema e della personalità di Dante dandone un’immagine distorta, se non addirittura scorretta, nelle loro “letture” pubbliche, in cui piegano il Poeta alle loro interpretazioni, in genere personalistiche e spesso faziose, con pochissimo riguardo alla realtà storica dell’uomo ed a quella filologica del poema. Un Dante – insomma – utilizzato ad usum Delphini, in cui il “delfino” sono ancora una volta i poveretti che, con purtroppo scarso senso critico, accettano senza colpo ferire interpretazioni che hanno poco valore ma che sono frutto di una lettura soggettivistica e spesso fuorviante della Commedia.
Nota
1) Ricordiamo, a mo’ d’esempio, la sua figura nel canto XXVII (vv. 112-120) dell’Inferno, quando si presenta per portare in Cielo l’anima di Guido da Montefeltro, anima che però gli verrà sottratta, a causa di un unico terribile peccato, da un diavolo («un d’i neri cherubini»).
L’elogio di San Francesco
(Paradiso, canto XI)
Intra Tupino e l’acqua che discende v. 44
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende, 45
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo. 48
Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange. 51
Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole. 54
Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto; 57
ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra; 60
e dinanzi a la sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte. 63
Questa, privata del primo marito,
millecent’ anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito; 66
né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch’a tutto ’l mondo fé paura; 69
né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce. 72
Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso. 75
La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi; 78
tanto che ’l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo. 81
Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì la sposa piace. 84
Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava l’umile capestro. 87
Né li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi’ di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia; 90
ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religïone. 93
Poi che la gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
meglio in gloria del ciel si canterebbe, 96
di seconda corona redimita
fu per Onorio da l’Etterno Spiro
la santa voglia d’esto archimandrita. 99
E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che ’l seguiro, 102
e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l’italica erba, 105
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno. 108
Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
ch’el meritò nel suo farsi pusillo, 111
a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede; 114
e del suo grembo l’anima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara. 117