Già uscita dalla crisi pandemica, ha chiuso il 2020 con un’economia in rialzo e per il 2021 le previsioni sono anche più rosee. Una Cina sempre più forte e ambiziosa circuisce il pianeta con una fitta rete di investimenti. L’Italia non è esclusa. Alcuni Paesi fiutano il pericolo e fanno resistenza per motivi di «sicurezza nazionale».
La leadership del più potente, totalitario partito politico al mondo ha definito – nel corso della Quinta sessione plenaria del 19° Comitato centrale del Partito Comunista, conclusasi lo scorso ottobre con la conferma della governance cinese, che resta salda intorno alla figura di Xi Jinping – le linee guida, la “road-map” strategica per conquistare nei prossimi quindici anni la leadership politica, economica, militare planetaria attraverso il piano “China Standards 2035”.
L’obiettivo espressamente dichiarato è la riaffermazione di una “grande cultura socialista”.
Le parole chiave uscite dalla sessione sono state: “doppia circolazione economica”, autosufficienza, primato delle forze armate, concentrazione assoluta del potere politico nelle mani del Partito.
In pratica è ancora e sempre l’ideologia marxista del Partito Comunista a dettare la vita del cittadino cinese, come dimostra anche l’intervento di Xi Jinping al forum di Davos di gennaio scorso, ove ha considerato ancora la difesa dei diritti umani, ampiamente e ripetutamente violati nel suo Paese, come un “pregiudizio ideologico”, che deve essere abbandonato, per seguire un percorso di pacifica convivenza perché «ogni paese è unico per storia, cultura e sistema sociale».
La quinta sessione del Comitato Centrale, dunque, è stata un evento cruciale nella predisposizione del quattordicesimo nuovo piano quinquennale 2021-’25, per raggiungere una maggiore indipendenza da altri Paesi, specialmente nell’alta qualità ed in aree come la ricerca e l’innovazione.
La Cina prosegue così in maniera decisa per la propria strada e sta uscendo, anzi è già uscita, dal tunnel della crisi del Coronavirus per prima tra le potenze mondiali, per cui è certo che dalla crescita ad “alta velocità” il Paese passerà allo sviluppo di “alta qualità”.
Questo perché la Cina ha dimostrato la migliore gestione della pandemia ed è ripartita subito, prima degli altri Stati, soprattutto quelli occidentali, con una forte crescita.
Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale (FMI), il Paese comunista sta registrando, rispetto all’anno 2019, il maggior tasso di crescita a livello mondiale con un +2,3% contro il -8,3% dell’Europa, il -4,3% degli USA e del nostro -10,6%. Solo nel periodo luglio-settembre scorso, l’incremento è stato del 4,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La produzione industriale ha fatto un balzo a settembre del 6,9% e ad agosto del 5,6%; gli investimenti industriali in nove mesi del 2020 sono aumentati dello 0,8% pari a 43.650 miliardi di yen. Questo perché già ad aprile le autorità avevano rimesso in moto tutte le fabbriche. Inoltre si registra l’aumento della domanda interna perché i cittadini cinesi hanno fiducia ed hanno ripreso a spendere (+3,3% le vendite al dettaglio). Ma quello che appare ancora più grave per le economie occidentali è che molte imprese multinazionali di tutto il mondo stanno andando ad investire in Cina.
Per tutti questi fattori positivi le previsioni sono tutte al rialzo, stimandosi che l’economia cinese possa registrare almeno il 6% di incremento per i prossimi due anni ed a fine anno varrà il 72% di quello USA e farà il sorpasso nel 2032.
Avevamo detto e scritto che la Cina avrebbe superato brillantemente l’epidemia che ha colpito il mondo intero. Ora arrivano i dati definitivi che vanno oltre ogni rosea previsione: il PIL del Paese dell’estremo Oriente per il 2020 è aumentato tanto per effetto del balzo in avanti fatto nell’ultimo trimestre dell’anno scorso +6,5%. In pratica tutta l’economia cinese non si è fermata che nel solo primo trimestre del 2020, poi è andata sempre crescendo, tornando, in effetti, ai livelli pre-crisi e prevede, nel 2021, una crescita dell’8%, con le esportazioni +3,6% che hanno trainato la crescita e gli investimenti, specie nell’edilizia stimolando la produzione di acciaio e cemento.
Va detto che la “Via della Seta” non è costituita solo da quella infrastrutturale, che dall’estremo Oriente arriva con ferrovie, porti e piattaforme logistiche in Europa, seguendo il mitico percorso di Marco Polo, ma anche dalla “Space Belt and Road Initiative”, la Via della Seta dello Spazio, che il presidente Xi Jinping annuncerà il prossimo 23 luglio a Pechino in occasione delle celebrazioni del Centenario del Partito Comunista cinese.
Si tratta in pratica del programma di penetrazione nello Spazio gemello di quello lanciato nel 2013 nell’ambito industriale, commerciale ed infrastrutturale (per il quale Pechino ha già investito 1.000 miliardi di dollari e che ha già dato risultati eccellenti), il cui giro d’affari viene stimato intorno ai 10 mila miliardi di dollari e per il quale si pensa ad un budget di diverse migliaia di dollari.
La Cina è arrivata per ultima sulla luna, ma intende diventare la prima nello Spazio, dopo aver raggiunto Stati Uniti e Russia. Infatti recentemente con la missione “Change” ha prelevato e portato sulla terra pietre lunari rare che servono per produzioni sofisticatissime; ma già nel 2019 con la navicella spaziale Change-e4 era atterrata sul lato più lontano della luna e nel febbraio scorso ha messo in orbita, con successo, la sonda Taianwen-1 (che tradotto significa “ricerca della verità celeste”). Per la Cina, questo programma spaziale avanzato ed economicamente sostenibile rappresenta un salto di qualità nel ruolo geopolitico, molto importante per il futuro dell’esplorazione spaziale, ma anche per la vita e gli affari sul pianeta. Infatti, ad esempio, la Stazione orbitale è diventata il laboratorio anti-Covid più avanzato che esista: con la ventunesima missione di SpaceX è partita la sperimentazione nello spazio del Remdesivir, il farmaco anti-Coronavirus sviluppato dal colosso delle biotecnologie Gilead Sciences.
La Cina spende già attualmente in ricerca e sviluppo scientifico e tecnologico il 2,3% del suo PIL, oltre 320 miliardi di dollari all’anno; quindi, non dovrebbe sorprendere che sia stata in grado di produrre cinque vaccini con 600 milioni di dosi e che abbia spedito grosse forniture, per sperimentazione e uso “in emergenza”, in numerosi Paesi, dal Brasile alla Turchia, Emirati Arabi, Indonesia, Pakistan, Filippine, Serbia e Ungheria, oltre che esportare miliardi di mascherine, tute protettive, guanti, ventilatori per la rianimazione (67 miliardi di dollari nel 2020).
Insomma l’economia dello Spazio rappresenta lo sbocco naturale per la ridefinizione degli equilibri geopolitici nel dopo-pandemia. Per questo in USA è partita la guerra alle aziende cinesi e la Borsa americana ha espulso i tre colossi delle telecomunicazioni: China Telecom, China Mobile e China Unicom e in un comunicato ha indicato la messa al bando di ogni società dell’apparato militare comunista cinese. Le tre società infatti sono ritenute sotto la ferrea direzione di un’agenzia governativa di Pechino, la Assets Supervision. Gli USA, inoltre, con analoga decisione adottata dal Regno Unito, hanno chiuso i confini alle importazioni di prodotti di cotone e pomodoro (un valore, nel 2020, di 19 miliardi di dollari) perché frutto di lavoro forzato. Un rapporto del Congresso USA parla inoltre di “possibile genocidio” nella provincia dello Xinjiang contro gli uiguri e altre minoranze etniche.
Dal suo canto anche l’Australia ha bloccato l’offerta di 231 milioni di dollari della “China state construction engineering company” (CSCEC), che voleva rilevare l’88% del gruppo delle costruzioni Probuild, attivo in Australia. CSCEC è la più grande società di costruzioni al mondo per fatturato. Questa operazione è stata bocciata per motivi di “sicurezza nazionale”.
Anche l’Inghilterra ha introdotto limiti sia all’importazione di merci cinesi prodotte con lavoro forzato sia all’export di prodotti e tecnologia made in Britain che potrebbero essere utilizzati come strumenti di repressione. Il governo britannico si è schierato in particolare contro i “campi di rieducazione” nella provincia di Xinjiang ed il lavoro forzato dei musulmani di etnia uigura. Le nuove regole inglesi impongono alle imprese importatrici di controllare la loro filiera di produzione per assicurarsi che sia “etica” (la provincia dello Xinjiang produce oltre il 20% di tutto il cotone mondiale). Anche se il ministro degli esteri britannico, Dominic Raab, intende rafforzare la legge contro la schiavitù, un gruppo di deputati conservatori ha formato il “China Research Group” e fa pressioni sul governo perché si adotti una linea più dura contro Pechino.
Per il resto, come bene sostiene Federico Rampini nel suo interessante libro: La Seconda guerra fredda. Lo scontro per il dominio mondiale (Mondadori Editore), la Cina ci ha già sorpassati nelle tecnologie più avanzate e punta alla supremazia nell’intelligenza artificiale e nelle innovazioni digitali.
In Africa è già da tempo in corso una vera e propria invasione con investimenti stratosferici in porti, ferrovie, autostrade, ecc., ecc. E attraverso questi investimenti la Cina ormai condiziona e controlla Stati e governi, maggioranze ed opposizioni politiche. In Europa la presenza commerciale è grande: tra il 2000 e il 2019, il volume del suo interscambio con la UE è aumentato di cinque volte, a 560 miliardi di euro, secondo uno studio pubblicato dal Mercator Institute for China Studies (MERICS), il maggiore think-tank europeo (tedesco). La Cina è ora il secondo partner commerciale dell’Europa, dopo gli Stati Uniti.
L’Italia, dal canto suo, è già da qualche anno terreno di conquista cinese attraverso la “Nuova Via della Seta”, che fino a ieri riguardava solo le infrastrutture (la Belt and Road Initiative) alle quali si erano aggiunte la Via della Seta Digitale, la Via della Seta Spaziale e, recentissimamente, la Nuova Via della Seta della Salute per fermare le pandemie, per costruire reti sanitarie, per distribuire i vaccini. Proprio per questo a molti osservatori ed anche ad una parte della nostra classe politica era apparsa come una sciocchezza la sottoscrizione del “memorandum”, l’accordo Italia-Cina firmato da Conte, che oltretutto ha fatto masticare amaro i nostri tradizionali alleati, gli USA, tanto che il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) ha lanciato l’allarme sulle mire del “dragone” sul nostro apparato industriale e le nostre infrastrutture materiali (porti, autostrade, piattaforme logistiche, ecc., ecc.) ed immateriali e tecnologiche come il 5G. Ha richiamato l’attenzione su questo problema anche il professor Giulio Sapelli, Presidente del Comitato Scientifico del Centro Studi Blueh Monitorlab e professore ordinario di Storia economica presso l’Università degli Studi di Milano, che ha detto: «La Cina vede nei porti italiani l’altra pedina nel suo gioco di dama, dopo Gibuti e dopo Atene. Abbiamo innanzitutto Gioia Tauro, mentre il prossimo colpo che i cinesi vorranno fare è sicuramente il porto di Taranto e l’hinterland di Trieste. La strategia della Cina è quella di comprare naturalmente le élite dei Paesi in cui investono oppure di eliminare per via giudiziaria coloro che si oppongono».
Del resto, ad oggi sono più di 700 le imprese italiane controllate da 300 gruppi cinesi o di Hong Kong (quasi tutti a capitali cinesi). Dal 2000 i gruppi dei due Paesi hanno investito in Italia quasi 20 miliardi di euro, terza piazza in Europa dopo Gran Bretagna e Germania; il giro d’affari delle società italiane controllate da soci cinesi e di Hong Kong è di 22 miliardi, i dipendenti sono 32.600.
E non abbiamo visto ancora tutti gli effetti degli accordi del “memorandum” che il governo Conte aveva sottoscritto irresponsabilmente con i rappresentanti della Repubblica cinese.
Il 2021 vedrà la più vasta campagna di shopping internazionale degli ultimi 20 anni. I grandi gruppi faranno a gara per accaparrarsi le eccellenze made in Italy e tra questi vi saranno certamente anche quelli facenti capo allo Stato cinese.