Uno sguardo puntato a Oriente per decifrare l’attualità internazionale e capire cosa davvero si nasconde dietro il rampante espansionismo cinese e la promessa di un destino comune di prosperità e pace per il mondo.
La globalizzazione ha trasformato da trenta anni la Cina nella fabbrica del mondo. Ha permesso di abbattere i costi di produzione e far guadagnare un sacco di soldi alle multinazionali occidentali che portavano là gli impianti. Ha inondato i mercati dei Paesi europei di merci a basso costo o gadget elettronici che altrimenti non sarebbero stati abbordabili. Mentre i posti di lavoro da noi si perdevano per la delocalizzazione, i popoli dell’Occidente spingevano l’acceleratore sulla strada del consumismo, risparmiando sempre meno e riempiendo le proprie case di televisori, scarpe, giocattoli e quant’altro. Quasi sempre Made in PRC – fatto nella repubblica popolare di Cina, cioè nella Cina comunista –. Ora è purtroppo arrivato il tempo di pagare il prezzo. I Paesi atlantici sono piagati dalla crisi economica, dalla disgregazione sociale e dalla corruzione morale. Il gigante asiatico invece mostra i muscoli, con esercitazioni militari, intrusioni informatiche e PIL (prodotto interno lordo) in attivo nonostante il Covid.
Partiamo proprio dal PIL cinese. Nel 1990 era di 360,9 miliardi di dollari, nel 2000 era di 1,2mila miliardi di dollari e nel 2018 di quasi 14mila miliardi. Più o meno nello stesso periodo villaggi di pescatori sono diventati città avveniristiche da 13 milioni di abitanti come Shenzen, intere regioni rurali sono state dotate di grandi autostrade e treni ad alta velocità, i cinesi hanno cominciato a pagare la spesa con il cellulare e mandare i figli all’università. Centinaia di milioni di persone sono uscite dalla povertà, non per merito delle ricette comuniste, ma per il sacrificio di tanti lavoratori e l’entrata – pur molto controllata dallo Stato – della Cina in dinamiche di libero mercato che le hanno dato la chance di offrire bassi salari e scarso rispetto dell’ambiente a industriali dell’intero pianeta che volevano fare grossi margini di profitto. Insomma, la proverbiale laboriosità cinese, unita al controllo di massa del Partito Comunista e dei suoi apparati di ordine, tutto al servizio dell’iper-capitalismo.
Oggi però, con una classe media più popolosa degli interi USA, anche i cinesi vogliono i fast food, le auto di grossa cilindrata e gli amori frivoli, basta guardare le commedie romantiche che imperversano sulle loro Tv. Ma soprattutto sotto la guida dittatoriale di Xi Jing Ping – insieme capo dell’esercito, presidente della Repubblica e segretario del Partito Comunista – il Paese ha iniziato a vedersi come una potenza mondiale, il cui destino non è più nelle retrovie della storia.
La cosiddetta nuova via della seta, più correttamente One Belt One Road initiative, è il piano di egemonia commerciale e infrastrutturale di Xi su Eurasia, Africa e Pacifico. Lanciata nel 2013, dovrebbe completarsi nel 2049 – e questo ci fa capire quanto il governo comunista abbia piani di ampio respiro –. Un mix di investimenti a pioggia, connessioni portuali e corridoi ferroviari, stanziamento di contingenti militari, accordi politico-economici con Stati più poveri e la promessa di un destino comune di prosperità e pace per il mondo.
Un amo a cui ha abboccato anche il nostro Paese, unico fra quelli del G7 (i Paesi più industrializzati) ad averlo sottoscritto, nel 2019 con il governo Conte I.
Dietro la facciata, però, la trappola dell’indebitamento con banche e governo del Dragone, la presenza di servizi di intelligence e strumenti di sorveglianza e intercettazione in giro per il mondo, l’infiltrazione di lobbisti e agenti di Pechino nelle questioni interne.
In questo contesto di espansionismo, dovrebbe preoccupare molto il recente rapporto del Dipartimento della Difesa americano sulla accresciuta potenza militare del Dragone, specie in ambito marino e missilistico.
La psicologia del popolo cinese oggi si nutre di ottimismo dato dal nuovo benessere, recupero della tradizione confuciana, rispetto della gerarchia, meritocrazia, nazionalismo e una forte compattezza sociale impressa dalla spinta autoritaria del Partito – che ha instaurato un neototalitarismo dopo decenni di timide aperture di Deng Xiao Ping proseguite fino alla fine del mandato di Hu Jin Tao nel 2012 –. Per la prima volta dopo secoli il Paese si sente di nuovo impero, e non ha scordato le umiliazioni sofferte per mano delle potenze occidentali (si pensi alle due guerre dell’oppio, fra gli episodi più spregevoli della storia umana, opera della potenza liberal-massonica britannica) o dei vicini asiatici (i massacri e gli stupri di massa dell’invasore giapponese durante la Seconda Guerra mondiale). Dall’altro lato gli USA, una potenza militare per ora inarrivabile ma anche un Paese straziato da divisioni interne e che – nonostante i grandi successi in economia della gestione Trump – rischia di perdere molto del suo potere dopo la pandemia, e per questo ha inasprito la guerra commerciale a Pechino. In mezzo l’Unione Europea, frammentata e tutta intenta a tutelare presunti diritti civili, la globalizzazione dei mercati, la secolarizzazione della società, l’importazione di manodopera migrante a basso costo.
Il giro di vite contro le libertà politiche a Hong Kong, le minacce di invasione a Taiwan, la repressione orwelliana della minoranza uigura in Xinjiang, la persecuzione della Chiesa Cattolica in Cina nonostante l’accordo con la Santa Sede, sono tutti sinistri segnali di un Paese che non ha voglia di scherzare con il resto del mondo. Una nuova guerra fredda è cominciata, di nuovo contro il comunismo, ma stavolta con un Occidente in decadenza che dovrebbe recitare la parte dei buoni. Ma la storia non la fanno gli uomini, la fa Dio. E anche il popolo cinese, con le sue miserie e la sua gloria, ha un posto nel Suo Cuore di misericordia.
Nei prossimi articoli approfondiremo diversi aspetti di questa situazione mondiale facendo ipotesi sul futuro prossimo.