La testimonianza di Rachel mostra almeno due innegabili verità: 1) l’aborto eugenetico uccide anche bambini in buona salute; 2) le coppie che decidono di portare a termine la gravidanza nonostante una diagnosi infausta sperimentano consolazione, serenità e pace, al contrario di chi, in nome di una falsa compassione, ricorre all’aborto.
A Rachel Guy i medici di Philadelphia avevano diagnosticato un’anomalia cromosomica quando sua madre era a 22 settimane di gravidanza. Hanno detto e ripetuto ai suoi genitori che sarebbe stata cieca, sorda e con disabilità intellettive. La giovane coppia ha rifiutato l’idea di porre fine alla vita della loro bambina e dopo tre tentativi, tre ginecologi che hanno prospettato come unica via percorribile l’aborto eugenetico (la neolingua lo chiama aborto “terapeutico”, ma la terapia è cura, mentre l’aborto non cura nulla, uccide), hanno finalmente trovato qualcuno disposto ad accompagnare quella gravidanza e assistere quella nascita che sarebbe stata certamente complicata. Alcune settimane dopo, Rachel è nata con un taglio cesareo: pesava poco più di 1 chilo e ha trascorso circa 5 mesi e mezzo in ospedale, tra i grandi prematuri, prima di essere abbastanza forte da tornare a casa: ci sente e ci vede benissimo.
A 14 anni, Rachel ha iniziato la sua battaglia per la vita perché è fermamente convinta che nessuno dovrebbe passare attraverso le difficoltà che i suoi genitori hanno patito. A 18 anni ha condotto la sua prima campagna di preghiera con l’associazione “40 giorni per la vita”. Tiene conferenze in cui si rivolge soprattutto ai medici e agli operatori sanitari invitandoli a vedere il valore di ogni vita e a combattere per ogni vita. È stata in Africa 3 volte, in Uganda, e in sud America, a Trinidad e in Nicaragua come missionaria laica votata al sostegno delle donne incinte e dei neonati. Il suo scopo è vedere l’aborto reso illegale, senza eccezioni, perché la vita di un bambino, sia in buona salute che malato, ha un valore inestimabile in sé.
La dura realtà, invece, ci mostra che la vita dei piccoli non conta nulla. Non conta quando sono sani, se sono percepiti come un ostacolo al “benessere” della madre, e a maggior ragione non conta quando hanno qualche problema di salute. A parte il fatto che – come la storia di Rachel insegna e come insegnano infinite altre storie – l’aborto eugenetico uccide un gran numero di bambini in buona salute, perché le diagnosi possono essere errate; a parte il fatto che l’aborto eugenetico stermina bambini che hanno problemi del tutto risolvibili come il piede torto o il labbro leporino o sei dita; a parte il fatto che oggi la medicina prenatale e perinatale fa davvero miracoli e i bambini che un tempo erano condannati a una vita difficile (per esempio con la spina bifida o con gravi cardiopatie) possono essere curati in utero con risultati eccellenti; a parte il fatto che oggi come oggi gli operatori sanitari si difendono dal rischio di essere chiamati a risarcire danni milionari, anche senza colpa, prospettando sempre gli scenari più cupi e le soluzioni più atroci; nessuno spiega ai genitori che davvero sono in attesa di un bambino con patologie gravi, o persino destinati a una vita breve o brevissima, che l’aborto aggiungerà per loro dolore su dolore, moltiplicherà l’angoscia e il rischio di depressione, metterà a dura prova la tenuta del rapporto di coppia.
Di questo abbiamo infinite testimonianze. Sopra tutte quelle che ci arrivano da “Il cuore in una goccia”, la onlus fondata dal professor Giuseppe Noia, ginecologo, illustre clinico e cattedratico del Gemelli di Roma, che sostiene le famiglie costrette a ricorrere alle cure dell’Hospice perinatale, fondato e diretto dallo stesso Noia. Le coppie che portano a termine la gravidanza nonostante una diagnosi infausta, per quanto debbano portare una croce pesante, testimoniano sempre, tutte, che la vita continua rinfrancata e sublimata dall’Amore, nel dolore, in una dimensione di pace, gioia e serenità che è difficile descrivere. Invece, le coppie che ricorrono all’aborto in alta percentuale si separano, e piombano nella depressione, nelle dipendenze e nelle altre conseguenze della sindrome post abortiva.
La questione ideologica sottile e serpentina che sottende l’aborto eugenetico, infatti, è il voler far credere a tutti i costi che sopprimere un malato sia un gesto d’amore nei confronti del malato stesso destinato a “una vita non degna di essere vissuta”. Con questo ragionamento si pensa di seppellire i sensi di colpa, che invece emergono prima o poi prepotentemente: perché una madre e un padre, persone e non animali, sono portati per natura a difendere i loro piccoli, a proteggerli, ad accudirli e allevarli a prescindere dalle loro qualità psicofisiche. Violentare questa natura comporta sempre delle conseguenze imprevedibili.