Affermare che si possa operare il cambiamento di sesso qualora non ci si riconosca in quello originario è una menzogna distruttiva. Sono migliaia i pentiti, disperatamente in cerca di aiuto perché, se molti avevano preso a cuore la loro sofferenza prima della “transizione”, ora che vorrebbero tornare indietro nessuno è più disposto ad ascoltarli.
La propaganda dell’ideologia gender non si arresta neanche in tempi di pandemia: è di poche settimane fa la notizia che la Regione Toscana ha stanziato 80.000 euro per finanziare un “Consultorio transgender” (con quei denari quanti respiratori e quante mascherine chirurgiche si potevano comprare?).
Le principali conquiste di tali follie ideologiche sono sotto gli occhi di tutti: i media danno evidenza agli “uomini incinti”, cioè a donne che hanno modificato il loro corpo tanto da sembrare maschi, ma, avendo conservato l’utero, hanno ottenuto una gravidanza con la fecondazione artificiale. E infatti, secondo gli “illuminati”, non si può più dire “donna incinta” o “madre”, ma bisogna dire “persona” incinta e “genitore”; non si può più dire “allattamento al seno”, ma “al petto”.
Ognuno, infatti, ha ormai il “diritto” di essere considerato maschio o femmina a seconda di “come si sente”, quindi ha il diritto di andare nel bagno o nello spogliatoio o nel dormitorio che si sente, ha diritto di gareggiare nello sport “come si sente”: per il CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, i maschi “trans”, che sono nati e cresciuti maschi (con livello di ormoni androgeni, muscoli e tessuti connettivi da maschi) possono competere con le donne, mentre le donne che – anche per natura – avessero troppi ormoni androgeni nel sangue vengono escluse o sanzionate per doping.
E, alla fine, se si ha diritto di essere come ci si sente, ha ragione anche Stefonknee Wolscht (precedentemente Paul) che pur avendo quasi sessant’anni “si sente” una bambina di 10. Ha trovato dei “genitori adottivi” che lo fanno giocare con la loro nipotina che per “lei” è diventata come una sorellina.
Tutti costoro vanno rispettati, in quanto persone, e vanno compatiti in quanto vittime della menzogna e di chi li ha “confermati” nella menzogna, illudendoli che la finzione possa essere realtà. Presto o tardi con la dura realtà si dovranno scontrare e temiamo che per loro lo scontro possa essere davvero doloroso.
Infatti, migliaia di transessuali sono disperatamente in cerca di aiuto perché si sono pentiti del “cambiamento di sesso” e vogliono tornare come prima.
Abbiamo già accennato in questa rubrica a uno dei primi e dei più famosi ex trans, Walter Heyer, che ha creato il sito web SexChangeRegret.com che è diventato una specie di centro di auto-aiuto per persone con disforia di genere.
Heyer è uno dei nove ex-transgender che hanno recentemente presentato un memorandum alla Corte Suprema degli Stati Uniti avvertendo che affermare il transgenderismo è una menzogna abusante e distruttiva: le pesanti cure ormonali e la chirurgia sono una tortura che aggiunge stress anziché ridurlo. Per una persona vulnerabile, perseguire un sogno che è fisicamente impossibile da realizzare peggiora la depressione e aumenta il rischio di suicidio.
Su Sky-UK è stato trasmesso pochi mesi fa un lungo documentario sulla “detransizione”. Tutti coloro che si stracciano le vesti in favore delle minoranze perseguitate, dovrebbero ergersi a paladini di queste persone che sono una minoranza all’interno di un’altra minoranza. E invece il loro grido di dolore viene ignorato. Anzi, costoro vengono spesso massacrati mass-mediaticamente, accusati di transfobia interiorizzata o peggio.
Sky ha intervistato Charlie Evans, inglese, 28 anni, che dopo aver vissuto per 10 anni da maschio, ha deciso di tornare femmina e ha reso pubblica la sua storia sui social un paio di anni fa. È rimasta sbalordita dal gran numero di persone – centinaia – che ha scoperto trovarsi in una situazione simile alla sua.
La maggior parte di loro sono ragazze, di circa vent’anni, e molte hanno anche problemi di autismo. Persone che hanno subito il bombardamento ormonale e l’intervento chirurgico mutilante necessari per “cambiare sesso”, e hanno scoperto con dolore che la loro disforia (la non accettazione di sé) non è per niente migliorata.
Charlie ricorda di essere stata avvicinata da una ragazza con la barba che abbracciandola alla fine di una conferenza le ha spiegato di essere una donna distrutta: emarginata e perseguitata anche dalla comunità LGBT, che l’ha accusata di tradimento. Fu allora che decise di fondare il The Detransition Advocacy Network.
Il servizio di Sky ha poi intervistato Ruby: ora ha 21 anni, ma ha iniziato a identificarsi come maschio a 13 anni. Dopo aver assunto il testosterone ha cambiato voce, le sono cresciuti i peli sul viso e il suo corpo è cambiato. Ma per fortuna ha avuto un ripensamento prima di procedere all’amputazione dei seni programmata di lì a pochi mesi dopo. «Ho capito che dovevo lavorare su di me, sul modo in cui mi sentivo, piuttosto che cambiare il mio corpo», ha detto Ruby. Ha capito da sola che il suo problema è la non accettazione di sé, della propria immagine corporea, a prescindere dal sesso. Per questo ha sofferto di disturbi alimentari. E si è resa conto che nessuno dei professionisti che avrebbero dovuto curarla si è interessato davvero ai suoi problemi: hanno visto (o voluto vedere) solo la disforia di genere e non hanno fatto altro che indirizzarla verso la “transizione”.
Sul numero di gennaio della rivista Notizie Pro Vita & Famiglia si può leggere una testimonianza analoga, forse ancor più drammatica, data da un’americana, Sidney Wright: la giovane donna accusa apertamente il sistema sanitario e politico che non dà alle persone sessualmente confuse alcuna possibilità di risolvere i loro problemi se non attraverso il “cambiamento di sesso”. In tutta la sua lunga e dolorosa esperienza nessuno ha avuto il coraggio di dirle di non rovinarsi: tutti – anche per paura di essere bollati come omofobi – non facevano altro che incoraggiarla nel proseguire su una strada che la stava distruggendo fisicamente e psicologicamente. Solo suo nonno, a un certo punto, le ha detto di smetterla e di tornare indietro. E la disintossicazione dal testosterone è stata più dolorosa, lunga e pericolosa di quella che patiscono i drogati di eroina che vogliono smettere.
Un celebre chirurgo come Miroslav Djordjevic, urologo responsabile del Centro di Belgrado per la chirurgia ricostruttiva genitale, denuncia da tempo la leggerezza con cui gli vengono inviate le persone per la “riassegnazione del sesso”: i suoi colleghi dovrebbero rifiutarsi di procedere alle operazioni nella maggioranza dei casi. E soprattutto agire su adolescenti e ragazzi molto giovani è assolutamente criminale: infatti anche lui testimonia che sono sempre di più quelli che si rivolgono a lui proprio per ritornare come prima.
E guarda caso, dietro il “cambiamento” del sesso (come per la contraccezione e l’aborto, la fecondazione artificiale e l’eutanasia) c’è un business miliardario.
Nel 2014, i 172 cambi di sesso a carico del Nhs sono costati ai contribuenti inglesi almeno 2 milioni di sterline; negli Usa c’è un giro di più di 97 milioni di dollari l’anno. Non c’è solo, infatti, la plastica ai genitali, ma vanno aggiustati il viso, l’addome, i glutei... perfino le corde vocali si devono ritoccare. A fare un “lavoro fatto bene” ci vogliono diverse decine di migliaia di dollari.
Prima e dopo gli interventi chirurgici ci sono le sedute di psicoterapia, che costano da 50 a 200 dollari l’una e gli ormoni: la terapia ormonale per il “cambiamento del sesso” può costare da 25 a 200 dollari al mese e dura per tutta la vita dei malcapitati pazienti.