Con la piccola Tafida siamo all’ennesimo provvedimento ingiusto: una struttura pubblica decreta la morte di un paziente, usurpando ai genitori la potestà decisionale e violando i principi della morale naturale. Provvedimenti di questo tipo, sempre più sistematici, alimentano una mentalità fatalistica nei confronti della malattia, che annulla la speranza e ogni sforzo teso alla risoluzione del male.
Da un po’ di tempo si sta parlando di un nuovo caso di abuso ai danni di una bambina di 5 anni.
Non si tratta di un abuso in senso classico, ma non per questo è meno grave.
Tafida Raqeeb, inglese, in seguito ad una emorragia cerebrale ha smesso di respirare autonomamente. Per tenerla in vita non c’è accanimento terapeutico, non c’è, quindi, l’applicazione di un criterio sproporzionato di cure, né le vengono somministrate medicine inutili o inefficaci e che magari aumentino la penosità della malattia. Niente di tutto ciò! V’è solo un supporto alla respirazione che la piccola non è in grado di compiere autonomamente. Si tratta della cosiddetta ventilazione artificiale o meccanica.
Eppure i medici del Royal London Hospital, dove la bambina è ricoverata, hanno decretato la sospensione della ventilazione. Detto in altri termini, Tafida è condannata a morte, nel suo miglior interesse.
Abbiamo più volte denunciato il gravissimo errore dello Stato di travalicare i limiti dell’ordinamento sociale naturale, quando, cioè, usurpa, ai veri titolari, il diritto di decidere, fermo restando che essi, le famiglie, scelgano secondo i principi della morale naturale.
Lo Stato, infatti, non può sostituirsi alla famiglia che, invece, è «la prima società naturale, titolare di diritti propri e originari [...] essa è [...] a fondamento della vita delle persone, come prototipo di ogni ordinamento sociale» (1).
Ma qui, siamo oltre al danno. Sì, perché oltre a decidere per i genitori di Tafida, i quali si oppongono risolutamente alla disposizione, si motiva la sentenza di morte nel miglior interesse della bambina. Ecco, quindi, la beffa.
Se analizziamo le implicazioni di questo provvedimento, ci accorgiamo di una cosa gravissima: la decisione produce l’effetto di eliminare la condizione della speranza, cioè toglie ai due genitori di Tafida il diritto di sperare di trovare una soluzione al problema della figlia.
Ora, la speranza, è un costitutivo della condizione umana. Rientra in quella capacità di progettare, di migliorare, di guardare al futuro con ottimismo, senza restare schiacciati dalla prospettiva di uno scenario ostile. Potremmo dire che la speranza è un elemento costitutivo del nostro DNA spirituale. Strapparla dall’animo significa distorcere la struttura fondamentale dell’essere umano.
A volte si ha come la certezza che quanto accaduto ad Alfie Evans e a Charlie Gard siano storie che rientrano in un preciso programma di ridisegnare l’uomo secondo una visione storica, prescindendo dal progetto di Dio creatore.
E allora, chiediamoci: come vivrebbe il “nuovo uomo” se perdesse la speranza? O come un vegetale o come un depresso, comunque privo di ogni stimolo vitale che lo animi. In questi casi, un essere umano può compiere follie. Viceversa con la speranza si possono affrontare anche situazioni molto difficili e trovare la forza di superarle. Quando poi la speranza si soprannaturalizza, attraverso la pratica delle virtù e la santificazione della vita, allora si può guardare a ciò che ci accade con una maggiore profondità e si può comprenderne il senso.
Se la storia terrena è una guerra dichiarata dalle forze demoniache al Dio Unitrino (guerra persa in partenza), allora si può anche concludere dicendo che il fine ultimo della distruzione della speranza è quello di impedire che l’ultima parola sugli eventi umani l’abbia Dio. Non è importante se chi collabora con questo piano malefico sia consapevole di ciò oppure no. Le nostre decisioni risentiranno esattamente dell’influsso di chi avremo deciso di servire: Dio o mammona.
Chiudiamo, allora, questa breve riflessione con un episodio accaduto a suor Maria Gertrude Mazzinelli. Questa Suora «...da tre anni era affetta da gravi tumori ed enfiagioni, che la facevano soffrire assai e avevano fatto svanire ogni speranza di guarigione. Ricorse a san Giuseppe e non fu delusa. Una mattina del marzo 1871, mentre le consorelle erano in cappella, entrò nella camera dell’ammalata un uomo che disse di essere “il falegname”, s’informò della sua salute e delle sue sofferenze e se ne andò dicendo: “Confidenza in Dio e coraggio!”. Le consorelle non volevano credere al racconto dell’inferma. Come avrebbe potuto un uomo entrare nella clausura? Ma quando, poco dopo, l’ammalata si alzò da letto completamente guarita, tutte compresero che “il Falegname” era san Giuseppe» (2).
E allora, proviamo anche noi a ripetere con san Giuseppe: “Coraggio e confidenza in Dio!” e preghiamo per Tafida e i suoi genitori che stanno affrontando queste terribile prova.
NOTE
1) Cf. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 211.
2) Carlo Tommaso Dragone, Spiegazione del Catechismo di san Pio X, Centro Librario Sodalitium, Verrua Savoia 2014, p. 128.