Nel capitolo 7 dell’Apocalisse si parla di un misterioso “sigillo” impresso sugli eletti dall’Angelo di Dio. Quali sono i suoi effetti?
Se, come si diceva nei precedenti articoli, i figli prediletti di Maria saranno in grado di compiere la profezia che li vede protagonisti nell’ultimo scontro vittorioso contro il serpente-drago è, certamente, in virtù di quel misterioso «sigillo» di cui si parla nel libro dell’Apocalisse, ultimo libro della Bibbia (l’unico libro di carattere profetico del Nuovo Testamento) in cui sono contenuti i vaticini riguardanti la vita della Chiesa negli ultimi tempi.
Proporrei, a questo punto, una riflessione di sapore esegetico per dischiudere, alla luce del messaggio mariano di Marienfried, il mistero affascinante di questo sigillo. Nell’Apocalisse, al capitolo 7, si legge: «Vidi poi un altro angelo che saliva dall’oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: “Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi”» (Ap 7,2-3). In questa pericope biblica si fa cenno per due volte al «sigillo del Dio vivente» (nella versione greca: «σφραγ?s θεο? ζ?ντος» e in quella latina di san Girolamo «sigillum Dei vivi»). L’uso del sigillo («sfraghìs») nel mondo antico e la sua ricca semantica biblica offrono già degli elementi importanti per la decifrazione di questo segno impresso sulla fronte dei salvati. In questo articolo vorrei appunto offrire qualche nozione generale in proposito.
Nel mondo agricolo antico «sfraghìs» era il marchio che il padrone metteva sugli animali, per cui quel segno indicava che quegli esseri appartenevano ad un proprietario, erano proprietà di un padrone. Lo «sfraghìs» è, allora, innanzitutto un segno di appartenenza e così può essere considerato quello di cui si parla nel libro dell’Apocalisse: per mezzo di esso gli eletti non sono più nell’anonimato, non si confondono con tutti gli altri uomini: Dio stesso li riconosce per suoi. Per mezzo dell’impressione del sigillo, gli eletti entrano a far parte di Qualcuno, per cui nessuno può vantare il diritto di far del male ad uno di loro perché arrecano un segno che li fa appartenere all’Altissimo.
Nel mondo militare antico, poi, lo «sfraghìs» era il segno di riconoscimento (divisa, bandiera, stelletta...) intorno al quale si riconoscevano i soldati come appartenenti ad uno stesso esercito. Era il segno di riconoscimento in base a cui i commilitoni si sentivano uniti nella lotta per difendere valori comuni per il bene della patria. Dunque era un segno di riconoscimento che comportava unità e solidarietà. Oltre al significato di “proprietà”, allora, lo «sfraghìs» passa a significare anche il cammino e l’impegno comune che i membri legati ad una stessa appartenenza profondono in stretta collaborazione. In questo senso, il «sigillo del Dio vivo» è un segno identificativo che non solo permette a Dio di riconoscere i suoi eletti che gli appartengono ma consente loro di riconoscersi a vicenda, sentirsi uniti in un’unica missione a servizio di Dio, per la sua gloria, la salvezza della loro anima e quella dei fratelli d’esilio. Il sigillo assume così una dinamica apostolica, di militanza che abilita le schiere dell’Altissimo a combattere contro le forze del male per l’edificazione del suo Regno sulla terra, con le armi del Signore e sotto la sua protezione.
Nel contesto biblico, infine, «sfraghìs» assume una marcatura soteriologica (cioè salvifica). Indica, infatti, soprattutto liberazione e salvezza. Sulle porte delle case degli ebrei schiavi in Egitto – come si ricorda nel libro dell’Esodo (12,1-14) – Dio ordina di fare un segno, uno «sfraghìs» col sangue dell’agnello pasquale; così l’angelo sterminatore, passando e vedendo quel segno, avrebbe risparmiato gli abitanti di quelle abitazioni.
Nel libro di Giosuè, poi, al capitolo 2, si racconta di una sua prima spedizione nella terra promessa. Manda avanti a sé due esploratori in segreto; questi, arrivati a Gerico, si nascondono in casa della prostituta Rahab. La donna li accoglie, li protegge, non li tradisce. Per aver loro salvato la vita, tuttavia, chiede in cambio che sia risparmiata la sua casa al passaggio degli israeliti. I due uomini accettano e ordinano di esporre un drappo rosso alla finestra. In virtù di quel segno («sfraghìs») i soldati israeliti avrebbero risparmiato la casa della donna dalla distruzione (cf. Gs 2,1-21). Un altro significativo raffronto si coglie nel libro del profeta Ezechiele (9,2-6), dove un emissario della divina giustizia viene da Dio incaricato di segnare, con un misterioso «tau» sulla fronte, le forze buone e incorrotte del popolo che, aizzato in massa dalle guide fedifraghe e immorali, si corrompeva e commetteva abomini di cui Dio non poteva più tollerare la perpetrazione: «Ecco sei uomini giungere dalla direzione della porta superiore che guarda a settentrione, ciascuno con lo strumento di sterminio in mano. In mezzo a loro c’era un altro uomo, vestito di lino, con una borsa da scriba al fianco [...]. Il Signore gli disse: “Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono”. Agli altri disse, in modo che io sentissi: “Seguitelo attraverso la città e colpite! Il vostro occhio non perdoni, non abbiate misericordia. Vecchi, giovani, ragazze, bambini e donne, ammazzate fino allo sterminio: solo non toccate chi abbia il tau in fronte; cominciate dal mio santuario!”».
In questo quadro interpretativo, quindi, il sigillo impresso sulla fronte degli eletti, significa e produce salvezza soprannaturale.
Si tratta, per giunta, di un segno che, oltre ad una visibilità esterna, possiede una dimensione interiore: con tale impressione si produce un effetto nell’intimo dell’anima, una presenza interiore, reale che opera un cambiamento e un rapporto nuovo con il Trascendente. Per questo accadimento, espresso e significato dal «sigillo-sfraghis», il Signore può dire realmente: «Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me e per queste pecore io do la vita» (cf. Gv 10,14-15).
Quello menzionato in Ap 7,2-3, quindi, è un gregge prediletto su cui è stato impresso il sigillo, per cui Dio sa che esso appartiene a Lui, i suoi membri si riconoscono a vicenda e militano per un fine comune e il Pastore supremo non dimentica che si è impegnato a proteggerli e salvarli.
Cerchiamo ora, alla luce di queste considerazioni, di rinvenire l’interpretazione allegorica dello spirituale «sfraghìs» con cui l’angelo dell’Apocalisse è incaricato da Dio di segnare i salvati: «Molte ipotesi si fanno, e generalmente si crede fosse il segno della croce, con il quale doveva [l’Angelo] segnare gli eletti, perché fossero sfuggiti alle grandi tribolazioni che dovevano piombare sulla terra. Dio fece segnare le case del suo popolo in Egitto dal sangue dell’agnello, per preservare dalla morte i suoi primogeniti quando doveva passare l’angelo sterminatore sugli egiziani [cf. Es 12,7]; fece preservare dalla rovina incombente su Gerusalemme quelli sulla cui fronte fece imprimere un “tau”, lettera che rassomiglia proprio alla croce [cf. Ez 9,4-6]; i padroni segnavano i servi con il loro nome o la loro sigla, per custodirseli più accuratamente, ed il Signore voleva che fosse posto un segno sui suoi servi perché non fossero confusi con quelli che dovevano essere colpiti, o perché per essi la tribolazione si fosse mutata in vantaggio dell’anima. Anche san Paolo proclama ai Galati che egli portava le stimmate di Gesù Cristo, il segno del suo dominio su di lui come suo servo [cf. Gal 9,17], e determina con questo che il segno che portava impresso era il dolore, le ferite cioè riportate per suo amore e le interne angustie, che non davano a nessuno un diritto sopra di lui. Tutto questo ci confermerebbe che il segno che aveva l’angelo doveva essere il segno della redenzione, della salvezza e del dominio di Dio sulle anime, ossia il segno della croce, non solo preso materialmente, ma inteso spiritualmente come sintesi delle immolazioni e dei dolori sofferti per amore di Dio, e soprannaturalmente come il segno indelebile impresso sui cristiani per i Sacramenti» (1).
NOTA
1) Don Dolindo Ruotolo, La Sacra Scrittura. Psicologia, commento, meditazione. L’Apocalisse, vol. 33, Apostolato stampa, Napoli, p. 196.