ATTUALITÀ
La tassa sul digitale
dal Numero 43 del 5 novembre 2017
di Roberto Ciccolella

In Italia il Parlamento sta discutendo la questione della tassa sul digitale, tassa da salutare positivamente perché, se ben attuata, essa potrà limitare almeno parzialmente gli incassi dei giganti del web che, a ben vedere, sono coloro che finanziano ogni campagna omosessualista, laicista e mondialista.

Ogni giorno quando usiamo smartphone e computer generiamo degli introiti per grandi gruppi societari, specialmente americani, che spesso non pagano le tasse in Italia. Ma il gioco sembra destinato a finire. Alcuni Paesi dell’Unione Europea, avvalendosi dell’unione doganale e commerciale, hanno iniziato a competere con gli Stati vicini non attraverso la produzione industriale o i servizi ma con una fiscalità estremamente favorevole. Per esempio Malta, con una tassa sui redditi al 5%, oppure l’Olanda con i suoi sconti sui dividendi o l’Irlanda che garantisce il 12,5% – circa metà dell’IRES italiana – più ulteriori vantaggi, per chiudere con il Lussemburgo che si è specializzato nel garantire accordi fiscali su misura alle multinazionali, i cosiddetti tax ruling che andavano per la maggiore proprio quando a guidare il Granducato c’era Juncker, l’attuale presidente della Commissione Europea. Allo stesso tempo gruppi come Google, Amazon, Airbnb, Apple e molti altri hanno iniziato a usare massicciamente la cosiddetta pianificazione fiscale. Che significa? Significa che, siccome non hanno una organizzazione fisica stabile ma solo organizzazioni virtuali sulla rete, utilizzano tutte le scappatoie lecite che Stati come quelli suddetti forniscono, al fine di non pagare le tasse nei Paesi in cui raccolgono più soldi e pagarle dove invece è più conveniente. Similmente le aziende specializzate nel gioco d’azzardo on-line hanno trovato il modo di acquisire licenze di gioco nei Paesi a fiscalità ordinaria (è ovviamente un male che il gioco d’azzardo sia legalizzato) e stabilirsi in isolette a tassazione quasi nulla (dove finiscono i soldi dei fessacchiotti che si rovinano con il poker on-line).
Qual è il problema in tutto questo? Semplice, con questi giochetti i fondi delle imposte sui redditi delle multinazionali del web non ritornano ai cittadini attraverso strade, ospedali, strumentazioni alle forze dell’ordine, scuole, ecc. Apparentemente si tratta di una questione di pura giustizia sociale ed equità finanziaria, temi certamente importanti. Ma qui si vuole spiegare che questi meccanismi sono anche il frutto di una società post-moderna e globalizzata in cui – disgregato l’ordine sociale naturale – rimane l’arbitrio dei più forti e dei più furbi. I grandi gruppi commerciali o informatici hanno infatti a disposizione un esercito di consulenti legali e fiscali che li guidano nell’impresa di gabbare quel che rimane degli Stati nazionali e ammassare fortune incalcolabili nei cosiddetti paradisi fiscali. Alcuni staterelli poi si sono prestati a questi schemi, non dovendo sostenere grandi infrastrutture pubbliche o costosi servizi sociali. Ma dopo che la Commissione Europea ha sanzionato la Apple costringendola a rifondere 13 miliardi di tasse e dopo che Google in Italia ha trattati con il fisco il pagamento di circa 300 milioni di euro, le cose sembrano cambiare. In Italia proprio in questi giorni il Parlamento sta prendendo in considerazione la questione e anche l’Unione Europea, dopo il vertice dei ministri finanziari a Tallin a settembre di quest’anno, ha iniziato a discutere di una tassa digitale unica continentale, anche se ci sono voci dissonanti e non sarà facile raggiungere l’obiettivo. Se però gli Stati più grandi – e che più ci perdono – come Italia, Francia, Germania e Spagna sapranno procedere con strumenti come la cooperazione rafforzata – cioè un passo senza aspettare l’unanimità degli altri Paesi UE – si riuscirà a fermare almeno parzialmente l’avidità dei giganti del web. Giganti che non temono di risparmiare sulle nostre tasse ma sono attentissimi a finanziare in dollari sonanti gruppi omosessualisti, laicisti e mondialisti.
Quel che qui interessa è rimarcare che il potere di società come Google e Amazon, che raccolgono dati anche i più sensibili sull’intera popolazione mondiale, è arrivato al punto di negoziare da pari a pari con realtà come l’UE e i suoi Stati, influenzando politici e media con possenti azioni di lobby. Dobbiamo quindi salutare positivamente la residua capacità di reazione degli Stati nazionali in ambito fiscale. Ma noi semplici cittadini che possiamo fare? In primis valutare bene a quali servizi web stiamo affidando i nostri dati e quanta fiducia possiamo dare a chi si dedica all’elusione fiscale. Quindi agire di conseguenza e, laddove possibile, usare servizi più sicuri e forniti da società meno potenti e magari europee. Penso ad esempio alle email di Protonmail o Tutanota o a motori di ricerca come DuckDuckGo, oppure a librerie on-line nazionali, anche cattoliche. Si tratta quindi di informarsi bene in merito a quegli strumenti che sono ormai di uso quotidiano e optare per ciò che nei limiti del possibile garantisce più indipendenza ai consumatori.

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