ATTUALITÀ
Ed ora... l’aborto post nascita?
dal Numero 25 del 25 giugno 2017
di Lazzaro M. Celli

Dodici anni fa il dottor Verhagen annunciò su un prestigioso giornale di Medicina il “Protocollo di Groningen”, un documento medico controverso che presenta le prime linee guida mondiali per l’infanticidio. Ora il Pediatra olandese torna alla carica spiegando che «se le prospettive di vita sono fosche, è meglio scegliere di uccidere il bambino dopo la nascita»...

Realisticamente, perciò normalmente, uccidere un bimbo appena nato costituirebbe reato; sarebbe un atto perseguibile legalmente. Ma per come sta cambiando la concezione antropologica, tra non molto non sarà più così. Il seme di questo cambiamento è tutto nella legislazione che ha approvato quell’omicidio di Stato che si chiama aborto, la madre di tutti i crimini contro i bambini indifesi. Tra i figli di questa cattiva matrigna c’è il Protocollo di Groningen, un documento che fece la sua prima comparsa nel 2005, nel famoso New England Journal of Medicine, un settimanale scientifico medico tra i più antichi e prestigiosi.
In esso si promuove la possibilità di uccidere un bambino già nato. Appena dodici anni fa, tale congettura sembrava un’idea talmente malsana che l’unica risposta sensata fu l’indifferenza. Oggi, invece, quella stessa idea si fa prepotentemente largo a colpi di machete, sorretta dai poteri forti che, anziché condannare gli autori di questo pensiero criminoso e debole, dedica ad essi le pagine di importanti riviste mediche o insignisce loro di cariche di rilievo nel mondo accademico. Non si tratta, dunque, di tirare fuori dal cilindro della memoria un fatto in esso sepolto anni fa, ma di constatare come i princìpi, che fino a un po’ di tempo fa regolavano la civiltà occidentale, siano quotidianamente rimossi, fino a cedere il posto a norme di comportamento completamente opposte a quelle passate, innescando un processo, un meccanismo rapidissimo di imbarbarimento della società.
Nel testo di questo famoso Protocollo vi troviamo una distinzione di tre categorie di neonati: quelli che una volta nati non hanno alcuna possibilità di sopravvivere; quelli che potrebbero sopravvivere solo con l’ausilio di una terapia intensiva e quelli che, pur non dipendendo da una terapia intensiva, hanno prospettive di una pessima qualità della vita.
Non vogliamo creare equivoci sulla posizione da assumere. Sia sempre chiaro e deciso il nostro no a qualunque tipo di manipolazione della vita propria e altrui, conclusione che discende direttamente dal Quinto Comandamento: “Non uccidere”. Vorrei, però, soffermarmi in modo particolare su quell’espressione a proposito della “qualità della vita”. Dobbiamo subito affermare che la qualità della vita non dipende dalle malformazioni corporee, o dalla ridotta capacità motoria, ma dalle relazioni che si stabiliscono tra gli esseri umani. Se c’è attenzione per il soggetto debole, se c’è condivisione di amore con la persona portatrice di handicap, così come Gesù Cristo ci ha insegnato, anche la vita di coloro che sembrano apparentemente più penalizzati acquista una dimensione di gioia, un orizzonte di senso. Viceversa, se organizziamo una società che punisce l’handicap, fa pressioni psicologiche sulla persona che ne è portatrice, facendo pesare il costo economico che comporta alla società o il sacrificio dei familiari, la conclusione più ovvia a cui si giungerebbe sarebbe quella di chiedere in prima persona, o per altri, l’eutanasia, mascherando, il tutto, con un falso velo di pietà.
La qualità della vita dipende dal tipo di vita che abbiamo scelto come modello di riferimento: se è quello della sfrenatezza del divertimento, dell’abolizione del sacrificio a cui la famiglia e la scuola ci educano fin da piccoli, quello della produttività e della ricerca spregiudicata del piacere, allora sì, non potendo realizzare tutto questo, la qualità della vita diventa bassa e i teorici della morte, i firmatari del Protocollo di Groningen, possono introdurre la discussione sul se uccidere il bambino o meno. E se oggi a rendere bassa la qualità della vita può essere una patologia quale la spina bifida, domani potrà essere quella della sindrome di Down, o semplicemente i portatori di labbro leporino o addirittura bambini che nascono con sei dita del piede anziché cinque, o chiunque abbia una sofferenza psichica.
     A questo punto sembrerebbe che si stia esagerando, ma anche dodici anni fa si pensava allo stesso modo, quando uscì il Protocollo di Groningen a firma di Eduard Verhagen e Pieter Sauer. Anche allora si scrivevano cose che sembravano inverosimili per i tempi; eppure, oggi, stiamo constatando come questo pensiero trovi sempre più spazi e consensi tra gli uomini, mentre la realtà parallela, quella fatta di persone che pur nella sofferenza hanno trovato la loro dimensione di vita, compresi quelli con la spina bifida, è una realtà che dobbiamo dimenticare; è un dato che deve essere abbandonato.
Se cambia la visione antropologica dell’uomo, anche la natura della madre cambia: da colei che per antonomasia darebbe la propria vita per tutelare quella dei figli, si passa alla donna che sentenzia la morte del proprio figlio. Ecco il trionfo delle tenebre: la donna che dovrebbe riflettere l’immagine dell’Immacolata è trasformata nel suo opposto.
Quanto abbiamo da imparare dalla Madre di Gesù, che avrebbe desiderato mille volte prendere il posto del Figlio in croce, ritenendo, nella sua umiltà, di subire quel terribile supplizio a giusta ragione, poiché si considerava ultima tra le creature. Quanto abbiamo da imparare da questa Madre straordinaria. Quale mirabile esempio da imitare ci ha lasciato.

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