Attorno al caso di dj Fabo si è montata una vera e propria “campagna promozionale” filo-eutanasia, con l’obiettivo di abbassare nel popolo italiano il livello di intolleranza verso questa pratica deprecabile. La triste visione delle cose imposta riduce l’uomo a “merce”, ingenerando ingiustificabili “sensi di colpa” e gravi conseguenze sanitarie.
La storia di Fabiano Antoniani, il quarantenne costretto alla quasi immobilità da circa tre anni perché affetto da tetraplegia a seguito di un incidente stradale, è stata sfruttata ad arte per supportare una discussione sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento, tenuta dai capigruppo dei partiti della Camera dei Deputati.
Il dj Fabo, com’era più comunemente conosciuto, ha chiesto a Marco Cappato, ex deputato radicale, tuttora promotore dell’eutanasia, di accompagnarlo nel viaggio della morte in una clinica svizzera. Qui non gli è stata eseguita l’eutanasia; su di lui, infatti, è stato praticato il suicidio assistito. Concorrere ad un suicidio è considerato reato per lo Stato italiano e Marco Cappato, sulla scia delle campagne teatrali di “san Marco Pannella”, si è autodenunciato, con la prospettiva di presentarsi come il martire coraggioso che ha sfidato le leggi “inique” della Repubblica italiana, per garantire un diritto ad un uomo sofferente. Precisa giustamente Giuliano Guzzo in un suo articolo sull’argomento che, Fabiano Antoniani, non era un malato terminale dilaniato da sofferenze fisiche. La sua vita era sì, compromessa, dopo l’incidente che lo rese anche cieco, ma non assimilabile alle condizioni oggettive che di solito sono invocate per richiedere l’eutanasia.
A questo punto, data la confusione che si crea, forse non è del tutto scontato ripetere che anche la sola pratica eutanasica non possa essere accettata, per il semplice fatto che la propria vita non può essere un bene disponibile a proprio piacimento. Non vorremmo ribadire l’ovvio, ma ne siamo costretti per evitare di cadere in una trappola che è diventata una strategia sistematica, utilizzata per ottenere lo scopo prefissato: in questo caso la legalizzazione dell’eutanasia. La tattica adoperata consiste nell’individuare una situazione più riprovevole di quella che si vuole promuovere, in tal modo si sminuisce il livello d’intolleranza verso di essa. Chiariamo: se l’eutanasia del malato terminale sofferente è moralmente condannata, per attenuarne la condanna sociale, si focalizza l’attenzione del grande pubblico su un evento ancora più deprecabile, come il suicidio assistito di una persona che non è in fin di vita e che non convive con sofferenze fisiche atroci. La comparazione ha l’effetto di abbassare il livello d’intolleranza verso l’eutanasia e predisporre verso una sua maggiore accettazione. È una tecnica volta alla modifica degli atteggiamenti mentali rispetto ad un dato problema.
Sembra, poi, che la normalizzazione dell’eutanasia si basi sulla promozione di una categoria mentale: produrre un senso di colpa nella persona affetta da malattia incurabile. Infatti, si sta cercando di ingenerare una sorta di convinzione morale per la quale la persona affetta da una malattia inguaribile dovrebbe richiedere la morte, allo scopo di sgravare la società da costi inutili. Con essa si vuole formare una nuova coscienza sociale dell’uomo-cosa, ossia dell’uomo derubato delle sue proprie caratteristiche – che lo elevano al di sopra di tutto ciò che è stato creato –, appiattito e assimilato ad un qualsiasi oggetto che si butta quando non serve più, così come la società dei consumi ci ha inculcato.
In questo modo, il paziente che si cura, si percepisce come un egoista, un parassita che la società deve mantenere e lo Stato, tra una falsa pietà e una “sana” economia, offre la soluzione più “giusta”, più “ragionevole”, più “onesta”, seppur dolorosa, dell’eutanasia.
Riteniamo però che la mentalità che si vuol imprimere, fissandola nelle coscienze degli uomini, sarà il grimaldello con il quale si perpetreranno ulteriormente nuove forme d’ingiustizia di trattamento sanitario. L’ammalato comune, quello che non avrà la fortuna di avere conoscenze ospedaliere, sarà abbandonato a se stesso e quello che, invece, ne avrà, si assicurerà una cura di favore. Se fosse approvata l’eutanasia, anche se solo indirettamente, attraverso la legalizzazione del testamento biologico, si verrebbe a generare un clima da film dell’orrore. Negli ospedali, infatti, quanti medici o infermieri favorevoli all’eutanasia, si sentirebbero liberi, in coscienza, di staccare la spina del malato più abbandonato, giustificando il loro gesto come un atto di pietà nei suoi confronti?
Inoltre, poiché il disegno di legge prevede che la persona possa predeterminare l’interruzione della stessa idratazione e nutrizione, nel caso in cui fosse compromessa la sua vita, il medico si trova ad assumere un ruolo particolare. Infatti, nel caso in cui arrivi in ospedale un malato bisognoso di un intervento urgente, ma con una situazione già compromessa riguardo, per esempio, la funzionalità degli arti, il medico dovrà intervenire per salvargli la vita, anche se il paziente non potesse migliorare più, o dovrà rischiare una denuncia per non avere rispettato la sua volontà? È ovvio che qualunque medico, piuttosto che sentirsi investito dal dovere d’intervenire, si attaccherà al telefono per informarsi sulle volontà dell’assistito, lasciando, così, trascorrere tempo prezioso a tutto svantaggio di un intervento tempestivo che potrebbe salvargli la vita. La figura del medico si burocratizza ulteriormente a scapito della deontologia professionale e del giuramento d’Ippocrate, nel cui testo antico, il medico s’impegnava a regolare il proprio tenore di vita, per il bene dei malati e a non somministrare, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né avrebbe mai dato un consiglio in tal senso, sia per i liberi che per gli schiavi.