RELIGIONE
Sacrilegio: via verso la morte eterna
dal Numero 6 del 12 febbraio 2017
di Antonio Farina

Commette sacrilegio chi abusa dei Sacramenti della Confessione o della Comunione, confessandosi in modo incompleto e insincero e comunicandosi in peccato mortale. La gravità di questi atti risulta più evidente dalle reali, tragiche conseguenze che provocano. Ecco qualche testimonianza.

La riflessione che segue prende spunto da uno scritto del Card. Giuseppe Siri apparso sul sito stellamatutina.eu, un «sito di cultura cattolica in piena e totale obbedienza al Magistero Petrino». Questo bel portale web riporta anche un gran numero di preghiere, novene, vite dei Santi, fatti di attualità, testimonianze, catechesi e se ne consiglia vivamente a tutti una visita seppur fugace. La tesi esposta dal Prelato non contiene in effetti alcuna novità sotto il profilo teologico-morale: è però fondata strettamente sulla Dottrina consolidata della Chiesa ed è – in sé – semplicissima: chi commette un sacrilegio (verosimilmente anche una serie finita di sacrilegi) in piena avvertenza, libera volontà e poi muore, rischia la pena eterna. Diciamo rischia perché non si può porre alcuna limitazione alla Misericordia infinita del Signore e solo Lui, che ha l’ultima parola, amministra la perfetta Giustizia, conoscendo lo stato interiore dell’anima e il suo eventuale pentimento. E allora? – ci si può domandare – perché mai affrontare questo tema così scomodo ed “urticante”? Il motivo è anch’esso semplicissimo: per “calibrare”, ri-sintonizzare, “ri-allineare” in un certo senso, il nostro concetto di Misericordia con quello reale posseduto ed esercitato da Dio.
A questo scopo la Santa Madre Chiesa ha emesso una serie di documenti “ad hoc”, che indicano a tutti la strada maestra da seguire. Comunque la forza dell’esempio rimane insuperata. Sapere che cosa è capitato in qualche caso reale, effettivo, concreto, attingere all’esperienza di Confessori e Direttori spirituali nonché approfittare della saggezza dei Santi che queste cose le conoscono molto bene, diventa un momento indispensabile per corroborare le nostre certezze dottrinali e conformare di conseguenza la nostra condotta. Anche perché in piena atmosfera di Relativismo morale così pervasivo, è facile “scantonare” per la tangente, derivare, perdere la bussola, uscire fuori della carreggiata o da una parte o dall’altra. O cadere nel lassismo o precipitare nel rigorismo (gli “-ismi” a quanto pare, non sono mai cosa buona).

La forza degli esempi


Pertanto vediamo cosa suggerisce il Card. Siri. Egli inizia così: «Un peccato che può condurre alla dannazione eterna è il sacrilegio. Disgraziato colui che si mette su questa strada! Commette sacrilegio chi volontariamente nasconde in Confessione qualche peccato mortale, oppure si confessa senza la volontà di lasciare il peccato o di fuggirne le occasioni prossime. Quasi sempre chi si confessa in modo sacrilego compie anche il sacrilegio eucaristico, perché poi riceve la Comunione in peccato mortale...». Ineccepibile. D’altro canto se ci si fermasse alla sola teoria la questione rimarrebbe lontana da noi, appannaggio solo di qualche “irriducibile” cristiano tiepido, distratto, oppure prerogativa di qualche peccatore incallito che prende alla leggera i Sacramenti. Insomma qualcosa di alieno che non ci riguarda. Invece segue un aneddoto, proveniente da fonte certa, che fa rimanere alquanto sconcertati e “accorcia” le distanze. Così prosegue il Porporato: «Racconta San Giovanni Bosco [...]: “Mi trovai con la mia guida (l’Angelo custode) in fondo a un precipizio che finiva in una valle oscura. Ed ecco comparire un edificio immenso con una porta altissima che era chiusa. Toccammo il fondo del precipizio; un caldo soffocante mi opprimeva; un fumo grasso, quasi verde e guizzi di fiamme sanguigne si innalzavano sui muraglioni dell’edificio. Domandai: ‘Dove ci troviamo?’. ‘Leggi l’iscrizione che c’è sulla porta’, mi rispose la guida. Guardai e vidi scritto: ‘Ubi non est redemptio!’, cioè: ‘Dove non c’è redenzione!’. Intanto vidi precipitare dentro quel baratro [...] prima un giovane, poi un altro e poi altri ancora; tutti avevano scritto in fronte il proprio peccato. Mi disse la guida: ‘Ecco la causa prevalente di queste dannazioni: i compagni cattivi, i libri cattivi e le perverse abitudini’. Quei poveri ragazzi erano giovani che io conoscevo. Domandai alla mia guida: ‘Ma dunque è inutile lavorare tra i giovani se poi tanti fanno questa fine! Come impedire tutta questa rovina?’. ‘Quelli che hai visto sono ancora in vita; questo però è lo stato attuale delle loro anime, se morissero in questo momento verrebbero senz’altro qui!’, disse l’Angelo. [...]. All’improvviso cominciai a vedere dei giovani che cadevano nella caverna ardente. La guida mi disse: ‘L’impurità è la causa della rovina eterna di tanti giovani!’. ‘Ma se hanno peccato si sono poi anche confessati’. ‘Si sono confessati, ma le colpe contro la virtù della purezza le hanno confessate male o del tutto taciute. Ad esempio, uno aveva commesso quattro o cinque di questi peccati, ma ne ha detto solo due o tre. Ve ne sono alcuni che ne hanno commesso uno nella fanciullezza e per vergogna non l’hanno mai confessato o l’hanno confessato male. Altri non hanno avuto il dolore e il proposito di cambiare. Qualcuno invece di fare l’esame di coscienza cercava le parole adatte per ingannare il confessore. E chi muore in questo stato, decide di collocarsi tra i colpevoli non pentiti e tale resterà per tutta l’eternità’».
L’episodio citato da Siri è più ampio di quanto qui riportato ed è più dettagliato e ricco di particolari molto impressionanti, ma tanto basta per convincersi che c’è qualcosa di dissonante per non dire di stridente, di contraddittorio con l’esperienza delle nostre Confessioni. Oggi capita spesso che i Sacerdoti quasi sorvolino sugli episodi di impurità adolescenziali ed i peccati contro il Sesto e Nono Comandamento. Al contrario l’Angelo-guida è perentorio: «Mi disse ancora: “Predica sempre e ovunque contro l’impurità!”. Poi parlammo per circa mezz’ora sulle condizioni necessarie per fare una buona Confessione e si concluse: “Bisogna cambiar vita... Bisogna cambiar vita. Ora che hai visto i tormenti dei dannati, bisogna che anche tu provi un poco l’inferno!”. Usciti da quell’orribile edificio, la guida afferrò la mia mano e toccò l’ultimo muro esterno. Io emisi un grido di dolore. Cessata la visione, notai che la mia mano era realmente gonfia e per una settimana portai la fasciatura». Dunque si è trattato ben più che di un sogno o di una semplice “visione” intellettuale...

Aveva taciuto una colpa grave

   Si potrebbe essere indotti a credere che i ragazzi dell’Oratorio di Don Bosco fossero soggetti a un giudizio più rigoroso degli altri dal momento che vivevano sotto la guida di un grande Santo, ma l’esempio successivo che non riguarda Don Bosco, dissipa subito questo dubbio: «Padre Giovan Battista Ubanni, gesuita, racconta che una donna per anni, confessandosi, aveva taciuto un peccato di impurità. Arrivati in quel luogo due sacerdoti domenicani, lei che da tempo aspettava un confessore forestiero, pregò uno di questi di ascoltare la sua Confessione. Usciti di chiesa, il compagno narrò al confessore di aver osservato che, mentre quella donna si confessava, uscivano dalla sua bocca molti serpenti, però un serpente più grosso era uscito solo col capo, ma poi era rientrato di nuovo. Allora anche tutti i serpenti che erano usciti rientrarono. Ovviamente il confessore non parlò di ciò che aveva udito in Confessione, ma sospettando quel che poteva essere successo fece di tutto per ritrovare quella donna. Quando arrivò presso la sua abitazione, venne a sapere che era morta appena rientrata in casa. Saputa la cosa, quel buon sacerdote si rattristò e pregò per la defunta. Questa gli apparve in mezzo alle fiamme e gli disse: “Io sono quella donna che si è confessata questa mattina; ma ho fatto un sacrilegio. Avevo un peccato che non mi sentivo di confessare al sacerdote del mio paese; Dio mi mandò te, ma anche con te mi lasciai vincere dalla vergogna e subito la divina Giustizia mi ha colpito con la morte mentre entravo in casa. Giustamente sono condannata all’inferno!”. Dopo queste parole si aprì la terra e fu vista precipitare e sparire...». Due sono i fattori che attirano l’attenzione: il primo è la assoluta gravità (oggi tanto negletta) attribuita ai peccati impuri. Il secondo è la tragedia che si consuma tra la vergogna di confessare un tale peccato e il conseguente vanificarsi del Sacramento. In effetti lo Spirito Santo non può restituire la divina Grazia e persistendo il Sacrilegio (questo è simboleggiato dai serpenti che rientrano) si arriva alla tragica conclusione. Una sottile catena di fatti infausti ha tenuto in scacco per anni l’anima della sventurata conducendola alla Perdizione eterna. Sia benedetta la grata che una volta separava il Confessore dal penitente! Purtroppo casi simili dimostrano che non è sufficiente l’atteggiamento indulgente, disponibile, accogliente e incoraggiante del Confessore per vincere la ritrosìa e la vergogna di un penitente. Se solo ci fosse ancora la separazione visiva, l’accusa dei peccati fluirebbe più facilmente. La grata era anche protettiva nei riguardi del Sacerdote perché celandogli la figura che aveva di fronte gli evitava turbamenti dovuti all’aspetto esteriore, pregiudizi e forse anche di riconoscere le persone.

La Principessa d’Inghilterra

Ad ogni modo il fondo della sorpresa lo si raggiunge esaminando un  terzo “caso spirituale”, questa volta storico: «Scrive il Padre Francesco Rivignez (l’episodio è riportato anche da sant’Alfonso) che in Inghilterra, quando c’era la religione cattolica [prima dello scisma anglicano del 1534, nda], il re Anguberto aveva una figlia di rara bellezza che era stata chiesta in sposa da diversi principi. Interrogata dal padre se accettasse di sposarsi, rispose che non poteva perché aveva fatto il voto di perpetua verginità. Il padre ottenne dal Papa la dispensa, ma lei rimase ferma nel suo proposito di non servirsene e di vivere ritirata in casa. Il padre l’accontentò. Cominciò a fare una vita santa: preghiere, digiuni e varie altre penitenze; riceveva i Sacramenti e andava spesso a servire gli infermi in un ospedale. In tale stato di vita si ammalò e morì. Una donna che era stata sua educatrice, trovandosi una notte in preghiera, sentì nella stanza un gran fracasso e subito dopo vide un’anima con l’aspetto di donna in mezzo a un gran fuoco e incatenata tra molti demoni... “Io sono l’infelice figlia del re Anguberto”. “Ma come, tu dannata con una vita così santa?”. “Giustamente sono dannata... per colpa mia. Da bambina io caddi in un peccato contro la purezza. Andai a confessarmi, ma la vergogna mi chiuse la bocca: invece di accusare umilmente il mio peccato, lo coprii in modo che il confessore non capisse nulla. Il sacrilegio si è ripetuto molte volte. Sul letto di morte io dissi al confessore, vagamente, che ero stata una grande peccatrice, ma il confessore, ignorando il vero stato della mia anima, mi impose di scacciare questo pensiero come una tentazione. Poco dopo spirai e fui condannata per tutta l’eternità alle fiamme dell’inferno”. Detto questo disparve, ma con così tanto strepito che sembrava trascinasse il mondo e lasciando in quella camera un odore ributtante che durò parecchi giorni...».
Ai grandi Confessori del passato come san Giovanni Nepomuceno, il Santo Curato d’Ars (Jean-Marie Vianney), San Pio da Petrelcina, san Leopoldo Mandi?, sant’Alfonso M. de’ Liguori, ma anche ad alcuni di oggi, queste cose difficilmente possono capitare perché possiedono una straordinaria preparazione (nel caso di Padre Pio e il Santo Curato addirittura una conoscenza mistica degli spiriti) che li porta a scavare (spesso impietosamente) nei recessi più profondi dell’animo umano fino a cavarne le colpe più oscure. A tutto beneficio del penitente. Ma quanti sono i santi Sacerdoti che “sentono puzza di bruciato” di fronte ad un fedele renitente, restio, riluttante, privo di un attento esame di coscienza? Che dire poi delle Assoluzioni di massa fatte a sproposito? La conclusione finale che se ne trae è che, nostro malgrado, oggi più di ieri è facile cadere nel vischio esiziale del sacrilegio della Confessione e dell’Eucaristia, perché all’opera nefasta del tentatore si aggiunge – ahimè – una sorta di sottovalutazione delle colpe non confessate per le quali non valgono le formule generiche che assolvono dai “peccati che non si ricordano”. Molto condivisibile a questo punto è la chiusura che ne fornisce lo stesso Porporato: «L’inferno è la testimonianza del rispetto che Dio ha per la nostra libertà. L’inferno grida il pericolo continuo in cui si trova la nostra vita; e grida in modo tale da escludere ogni leggerezza, grida in modo costante da escludere ogni frettolosità, ogni superficialità, perché siamo sempre in pericolo».

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