Di per sé sappiamo bene che cosa dobbiamo fare e che cosa dobbiamo evitare per piacere a Dio e vivere da veri cristiani, perché il Signore ci ha lasciato delle “regole” con i dieci Comandamenti. Però è anche vero che sembrano regole più che altro generali e per certi aspetti astratti. Mi è capitato, come penso a tutti nella vita, di essermi trovato di fronte a dilemmi che riguardano situazioni molto concrete e circostanze ben precise. In una determinata situazione, come posso capire che cosa devo fare in concreto? Come faccio a sapere se quello che faccio è giusto o è sbagliato? (Mauro M.)
Caro Mauro, la sua è una domanda molto importante, che fa comprendere il suo sincero desiderio di piacere al Signore: chi mi dice qual è «il bene da fare e il male da evitare» nella concretezza quotidiana? Chi è il giudice?
La risposta è unanime: è la voce della coscienza che di volta in volta ci dovrà suggerire ciò che dobbiamo fare e ciò che dobbiamo evitare.
Mentre i dieci Comandamenti costituiscono la regola remota del nostro operare, perché – come da lei giustamente affermato – ci dicono in astratto ciò che dobbiamo fare e quello che dobbiamo evitare, la coscienza ne è la regola prossima, perché ci dirige nelle singole operazioni concrete, ci applica i Dieci Comandamenti nei casi particolari e ci dice volta per volta se ciò che abbiamo fatto o stiamo per fare è buono o cattivo (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1776-1778).
È una specie di tribunale che si erige dentro di noi e ci approva quando facciamo il bene (un atto di carità, per esempio), facendoci provare nel nostro cuore una soddisfazione indefinibile, o inesorabilmente ci condanna quando facciamo il male (un furto, un omicidio, una maldicenza, ad esempio), facendoci sentire un rimorso straziante che non ci lascia più né pace né riposo. Si tratta di una voce percepita nell’anima, ma non prodotta dall’uomo perché superiore all’anima. Infatti dà all’uomo degli ordini e gli indica delle responsabilità, tante volte scomode e pericolose. Essa è, in ultima analisi, la voce di Dio che ci istruisce, ci guida e ci giudica.
Fin dall’inizio dell’umanità la coscienza fa sentire la sua voce. Adamo ed Eva, dopo il peccato originale, si nascondono impauriti: la coscienza dice loro che hanno fatto del male (cf. Gen 3,8). Caino, dopo aver ucciso suo fratello Abele, fugge anche se nessuno lo ha visto. Ma una voce, quella della sua coscienza, lo perseguita e lo condanna (cf. Gen 4,8-17). Giuda tradisce Gesù per trenta denari. In seguito, tormentato dal rimorso della coscienza, va a gettare il denaro ai piedi degli uomini del Sinedrio, e poi miseramente si toglie la vita (cf. Mt 27,3-7). Secondo san Paolo (Rm 2,14-15), la coscienza, in un certo senso, pone l’uomo di fronte alla legge, diventando essa stessa testimone per l’uomo: testimone della sua fedeltà o infedeltà nei riguardi della legge, ossia della sua rettitudine o malvagità morale.
Ma da chi è percepita la voce della coscienza? Soltanto dalle coscienze sensibili e bene educate ad una vita virtuosa, ma non da quelle accecate e deformate, le quali, a forza di trasgredire in continuazione i Comandamenti di Dio, perdono quasi del tutto la sensibilità al peccato. Così inclini al male non avvertono più i richiami della coscienza.