Mi trovavo sul piazzale davanti alla chiesetta e un uomo mi si avvicinò: «Reverendo, per favore, vorrei parlarti», disse.
Ci appartammo e mi fece presente la penosa situazione in cui versava. La moglie, affetta da un tumore maligno al petto, aveva pochi giorni di vita.
I medici, e ne aveva interpellati tanti, l’avevano definitivamente dimessa. Ogni cura sospesa, solo qualche farmaco, per lenire i dolori, le veniva ancora somministrato.
«La scienza – mi diceva –, non può più nulla; mia moglie mi ha supplicato di portarla qui, a San Giovanni Rotondo. Io, però, non credo – soggiunse –, sono ateo: sono un 33 della massoneria; mi chiamo Giovanni Confetto, sono direttore, sezione pensioni, del Ministero del Tesoro, a Roma. Reverendo, ti prego di parlare di mia moglie al Padre. Per correttezza digli pure che io non credo e sono un massone». «D’accordo, farò e dirò così», risposi, senza perdere tempo.
Lo invitai a seguirmi, perché il Padre, terminate ormai le Confessioni delle donne, sarebbe subito passato lungo il corridoio per ritirarsi in cella.
Riuscimmo a raggiungerlo, si trovava vicino alla cella numero 5, eravamo soli: il Padre, il direttore e io.
Subito mi accostai e dissi: «Padre, questo signore ha la moglie ammalata di tumore grave. Vi chiede di pregare, però mi ha detto di farvi sapere che è ateo e massone».
Padre Pio, dolcemente, rispose: «Come posso parlare con Gesù, se non crede che esiste? Prima egli deve credere a Gesù e poi io gli parlerò di sua moglie».
Il direttore aveva perfettamente capito. Salutammo il Padre e, per le scale, lungo tutto il percorso, fino a quando non ci congiungemmo alla moglie inferma, che era in attesa sul piazzale, sollecitavo quel signore a desistere dalla sua incredulità, per lo meno per salvare sua moglie.
In verità egli rimase turbato e pallido. Mi confidò: «Vorrei fare come tu dici, ma non ne ho la forza. Ho qualcosa dentro che non mi lascia parlare. Ci proverò un altro momento».
Salutai lui e la moglie e partii da San Giovanni Rotondo.
Tre mesi dopo lo rividi sul piazzale, mi avvicinai e, timidamente, pensavo fosse in lutto, gli chiesi: «E tua moglie?». «È guarita!», rispose con tanta felicità. «Allora tu... ti sei confessato?». «Eh sì! Quindici giorni dopo il nostro colloquio col Padre sono ritornato solo. Vedevo morire lentamente mia moglie e impazzivo al pensiero che, tornando io a credere, avrei salvato lei e me. Mi decisi e venni a confessarmi. Poi dissi al Padre: “Io ora credo, volete dire al Signore qualcosa per mia moglie che muore?”. “Sì”, rispose. Tornai a casa, mia moglie stava meglio. Andammo dal medico il quale, stupito, non finiva più di gridare al miracolo. Ed ora eccoci qua a ringraziare il Padre».
I nostri occhi, oramai, luccicavano, erano pieni di lacrime. Vidi la moglie che, sorridente, veniva verso di noi. Nascondendo dentro di me il pianto, le dissi con gioia: «Auguri, signora!». «Grazie! – rispose –, grazie per quello che avete fatto per me».
Il Padre era stato tanto buono da guarire non solo la sposa dal tumore, ma anche lo sposo dall’incredulità.
* * *
Ci incontravamo in albergo, ma non ci conoscevamo. Fu lui a rompere il riserbo, presentandosi: «Sono l’avvocato Alberto Del Fante, di Bologna, ex 33 della massoneria, da poco convertito da Padre Pio; scrivo libri su di lui».
Senza chiedergli nulla, subito, con convinzione, cominciò a ringraziare il Padre che gli aveva ridonato la fede e a manifestare la gioia di restituirgli la vita rinnovata, spendendola a favore dei fratelli.
Poi, continuò: «Mia moglie era ammalata di tumore, moribonda, senza più alcuna speranza. Qualche amica le aveva parlato di Padre Pio, un umile frate di San Giovanni Rotondo, dal quale tanti tornavano guariti.
Ero al suo capezzale quando, con gli occhi pieni di pianto, mia moglie mi pregò di andare da Padre Pio per chiedergli la guarigione.
Essa sapeva che ero massone e feroce anticlericale.
Io dapprima fui duro, anzi beffardo; pensavo: non può nulla la scienza, tanto meno potrà fare qualcosa un povero frate. Poi, vedendola piangere e in quello stato pietoso, decisi di farla contenta: “Va bene, ci vado! E non perché ci credo, ma per giocare un terno al lotto”.
Il giorno seguente partii e a sera ero a San Giovanni Rotondo. Il mattino dopo, ascoltata la lunga Messa, mi misi in fila per le confessioni.
Giunto il mio turno, non mi inginocchiai subito, rimasi in piedi davanti a Padre Pio chiedendo di parlargli un momento.
Il Padre con durezza gridò: «Giovanotto, non mi fate perdere tempo! Che siete venuto a fare, a giocare un terno al lotto? Se volete confessarvi, inginocchiatevi, se no lasciatemi confessare questa povera gente che aspetta».
Fulminato dalla ripetizione della mia espressione e scosso dalla strana durezza, quasi meccanicamente e senza convinzione mi inginocchiai.
Ero impreparato e non riuscivo a connettere due parole, tanto meno a ricordare i peccati di cui non avevo nemmeno coscienza.
Invece, appena mi inginocchiai, il Padre cambiò voce e tratto: divenne dolce e paterno. Anzi, sotto forma di domande, mi svelava via via ogni peccato della mia vita passata: e di peccati ne avevo tanti!
Io ascoltavo col capo chino la domanda e sempre rispondevo: “Sì”. Stupito e commosso, diventavo sempre più immobile.
Alla fine Padre Pio mi chiese: “Hai nessun altro peccato da dire?”. “No”, risposi, convinto che, avendomeli detti tutti lui, che mostrava di conoscere perfettamente la mia vita, io non avessi altro da confessare.
“Non ti vergogni? – cominciò con imprevedibile durezza – Quella giovane, che tu poco tempo fa hai lasciato partire per l’America, ha avuto un figlio. E quella creatura è sangue tuo. E tu, sciagurato, hai abbandonato madre e figlio”.
Era tutto vero. Non risposi. Scoppiai in un pianto incontenibile. Non ne potevo più.
Mentre, col volto nascosto fra le mani, piangevo, curvo, sull’inginocchiatoio, il Padre dolcemente mi poggiò il braccio sulle spalle e, avvicinandosi all’orecchio, mi sussurrò, singhiozzando: “Figlio mio, mi sei costato il meglio del mio sangue!”.
A queste parole sentii il mio cuore spaccarsi in due, come da una dolcissima lama.
Piangevo curvo e, a tratti, alzando il volto bagnato di lacrime, gli ripetevo: “Padre, perdono, perdono, perdono!”.
Il Padre, che aveva già il braccio sulla mia spalla, mi avvicinò di più a lui e cominciò a piangere con me.
Una dolcissima pace pervase il mio spirito. D’un tratto, sentii l’assurdo dolore mutarsi in incredibile gaudio.
“Padre, gli dissi, sono tuo! Fa’ di me quello che vuoi!”. Ed egli, asciugandosi gli occhi, mi sussurrò: “Salutami tua moglie!”. Tornai a casa, mia moglie era guarita».
Pierino Galeone,
Padre Pio. Mio Padre, pp. 61-65