MARIA SS.
Letture dantesche | Cacciaguida e la missione del poeta
dal Numero 28 del 25 luglio 2021
di Dario Pasero

Giunto in cielo, secondo le parole di Virgilio che gli ha anticipato l’arrivo di questo momento, Dante vuole approfittare dell’incontro con l’antenato Cacciaguida per conoscere, senza più dubbi né ambiguità, cosa gli riservi il futuro. La risposta è nello stesso tempo profezia e documento programmatico del vero poeta.

Nel canto XVI Cacciaguida risponde a quattro domande del suo discendente, scandite in due relative alla famiglia (quali fossero i suoi avi e in quale periodo storico egli sia vissuto) e in due riferite alla città di Firenze dei suoi tempi (quanti i suoi abitanti e quali le sue principali famiglie). Nel corso dell’ultima risposta del suo trisavolo, Dante coglie l’occasione per una nuova reprimenda nei confronti della città di Firenze, destinata ormai ad una decadenza la cui causa principale va vista nell’aumento della popolazione, e nel conseguente ampliamento urbanistico della città, ma soprattutto nel fatto che questi nuovi abitanti (perlopiù contadini inurbati) abbiano portato entro le mura cittadine una nuova mentalità, gretta e meschina, fondata sul commercio e sul guadagno, lontana quindi dagli ideali di nobiltà e rettitudine degli antichi abitanti. Tale visione, che, seppur pronunciata da Cacciaguida, va ovviamente riferita a Dante, risente certamente del fatto che la famiglia degli Alighieri appartenesse alla nobiltà e si sentisse quindi particolarmente colpita dal nuovo stato di cose.

Nel canto XVII Dante, dopo aver ascoltato ciò che riguardava i suoi antenati e la sua città, passa ad argomenti che lo riguardano più da vicino, vale a dire il destino che lo attende di lì a poco tempo. Egli prende le mosse da lontano, ricordando come durante le fasi precedenti del suo viaggio, nell’Inferno e nel Purgatorio, varie anime gli abbiano fatto dei cenni, a lui piuttosto oscuri per la verità, relativi alla sua vita futura. Ora, giunto in cielo, secondo le parole di Virgilio che gli ha anticipato l’arrivo di questo momento, egli vuole approfittare dell’incontro con Cacciaguida affinché questi gli sveli, senza più dubbi né ambiguità, cosa il futuro gli riservi. La domanda di Dante e la profezia di Cacciaguida occupano i vv. 13-27 e 37-99 del canto, facendo seguito ad una introduzione (vv. 1-12), in cui una similitudine di argomento mitologico (Fetonte e Climene) ci rappresenta lo stato d’animo del Poeta di fronte alla possibilità di conoscere la verità sulla sua vita futura. Il canto si conclude poi con una nuova richiesta di Dante (vv. 106-120) e la conseguente risposta del beato (vv. 124-142).

Il momento centrale del canto è costituito dalla prima profezia di Cacciaguida, in cui si svela apertamente (l’anima infatti legge direttamente in Dio il futuro e pertanto non ci può essere errore nelle sue parole) il destino che attende Dante di lì a circa tre anni, partendo anche ora da una similitudine mitologica (Ippolito e Fedra): l’esilio, causato in particolare da mene ordite nella curia romana («là dove Cristo tutto dì si merca»: v. 51), a causa dell’ostilità per Dante da parte di papa Bonifacio VIII. Inizierà pertanto il girovagare del Poeta in cerca di un ricovero sicuro, cosa che in un primo tempo lo vedrà accompagnato da altri fuorusciti guelfi bianchi («la compagnia malvagia e scempia»: v. 62 e «tutta ingrata, tutta matta ed empia»: v. 64), dai quali – per sua fortuna – si separerà dopo alcuni inutili tentativi di rientro in patria («a te fia bello / averti fatta parte per te stesso»: vv. 68ss). Segue poi l’elogio di Cangrande della Scala, signore di Verona, a cui è dedicata tutta la terza Cantica, da Dante incontrato, ancora giovinetto, durante il suo soggiorno presso la corte di Bartolomeo, fratello maggiore di Cangrande stesso. Entrambi i signori vengono ampiamente elogiati: di Bartolomeo si sottolinea la “cortesia”, mentre di Cangrande si afferma che «notabili fier l’opere sue» (v. 78), proseguendo poi l’elogio fino al v. 93. A proposito ancora di Cangrande, e della famiglia della Scala, non è inopportuno notare come essa fosse di obbedienza imperiale, sostenitrice del partito ghibellino, tanto da portare sulla sua insegna, cioè la scala, il simbolo imperiale dell’aquila («che ‘n su la scala porta il santo uccello»: v. 72): ancora una volta, seppur implicitamente, Dante sostiene come fondamentale, anche per le libertà delle singole istituzioni politiche, l’auctoritas imperiale poiché Nulla auctoritas nisi a Deo (“Non c’è autorità se non da Dio”). A conclusione di questa prima profezia Cacciaguida esorta tuttavia il Poeta a non portare odio («invidie»: v. 97) ai suoi nemici, dato che la sua fama è destinata a durare molto di più della vita e della punizione di essi.

Proprio l’accenno alla fama («s’infutura la tua vita»: v. 98) spinge Dante ad una riflessione di cui farà partecipe anche l’anima beata nei vv. 106-120. In essi infatti Dante, dopo essersi dichiarato pronto ad affrontare il destino avverso che gli è stato prospettato, si pone (e pone al trisavolo) un dubbio: si sopporterà l’esilio da Firenze, ma piuttosto non esiste forse il rischio che, se egli racconterà tutto ciò che ha visto e udito nell’Inferno e nel Purgatorio, qualcuno dei parenti delle anime, dannate o penitenti, si adiri con lui causando in tal modo la possibilità che egli si veda negare ospitalità durante il suo girovagare per l’Italia? D’altra parte – secondo corno del dilemma – se Dante, per evitare questo rischio, non racconterà tutto ciò che ha conosciuto nel suo viaggio, non correrà in tal caso il rischio di venir considerato, dai posteri, una persona da poco e codarda?

A questo dubbio Cacciaguida risponde con una seconda profezia. Dante dovrà raccontare, per filo e per segno, tutto ciò che ha conosciuto e di tutte le anime che ha visto, poiché questo è il compito di un vero poeta. Chi deve preoccuparsi, provando vergogna delle sue azioni negative, è chi le ha compiute (coinvolgendo in questa vergogna anche i discendenti ancora vivi) e non certo Dante, che ha come dovere proprio quello di far conoscere la Verità. Anzi, conclude l’anima aggiungendo una sorta di corollario, proprio per questo motivo a Dante sono state mostrate solamente anime di persone conosciute e famose, affinché l’esempio della loro punizione (o della loro penitenza) possa essere ben chiaro a tutti, generando così un possibile pentimento e ravvedimento nei lettori, poiché la gente comune (e qui compare tutto il carattere nobile, ma forse anche un po’ spocchioso, dell’intellettuale «di alto sentire») non si lascia convincere se non da esempi ben evidenti e da modelli di grande rinomanza: «Che l’animo di quel ch’ode, non posa / né ferma fede per essempro ch’aia / la sua radice incognita e ascosa, / né per altro argomento che non paia» (vv. 139-142).

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